“Dopo tutto questo buio a Lucca ritorna la luce” è la frase con cui Vittorio Sgarbi apre il comunicato stampa della mostra da lui curata e intitolata “I pittori della luce: da Caravaggio a Paolini”, sino a poche settimane fa ospitata negli spazi della Cavallerizza in Piazzale Verdi a Lucca.
Il grande successo dell’esposizione si misura grazie agli oltre 140.000 visitatori che nel corso di 11 mesi di apertura hanno potuto ammirare le circa 100 opere, gran parte delle quali provenienti da collezioni private.
Sin dal titolo della mostra, il nome di Pietro Paolini riveste un ruolo di primo piano, affiancato a quello del ben più celebre Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Sotto la più ampia esposizione che presenta la luce come protagonista di una temperie artistica partita da Caravaggio e irradiatasi capillarmente in Europa si cela, infatti, una mostra monografica dedicata a Paolini, presente con 25 opere che corrispondono al nucleo centrale del percorso espositivo.

Pietro Paolini, la cui prima monografia venne redatta nel 1987 da Patrizia Giusti Maccari, non è stato particolarmente considerato dalla critica storico artistica e della sua biografia poco si conosce. Sarebbe però da valutare come veritiera la notizia riportata da Filippo Baldinucci secondo la quale Paolini dovette trovarsi a Roma negli anni in cui il caravaggismo imperversava, per poi rientrare in patria e diffondere il verbo caravaggesco.
Per questo motivo, la mostra principia proprio con Caravaggio e, nello specifico, con tre opere non di certo tra le più celebri ma sicuramente piuttosto discusse: il Mondafrutto (fine del XVI sec., collezione privata), il Cavadenti degli Uffizi (1608 ca.) e la copia materica (una riproduzione ad altissima definizione) del Seppellimento di santa Lucia (1608) appartenente al Fondo Edifici di Culto.

I primi due ambienti dell’esposizione hanno lo scopo di introdurre il contesto pittorico romano e le varie influenze che andarono a imprimersi negli occhi di Pietro Paolini durante la sua formazione nell’Urbe.
Sin dalla prima sala si entra in un clima decisamente raccolto, caratterizzato da un allestimento tutto giocato sul colore nero per far risaltare unicamente le opere. Manca qualsiasi tipo di apparato didattico, a esclusione delle brevi didascalie dei pezzi esposti, in un chiaro tentativo di rendere evidente che saranno i dipinti stessi a parlare e a spiegare il percorso che via via si rivelerà. In questo, l’allestimento riveste un ruolo importante poiché vuole contribuire a fare emergere il tema della luce, vera e unica protagonista di tutto il caravaggismo.

Dal Mondafrutto – dipinto quando Caravaggio “è a Roma, e pensa alla sua Lombardia” (V. Sgarbi) –, dal Seppellimento e dal Cavadenti si passa alla prima risposta luministica all’innovazione di Caravaggio, l’Adorazione dei pastori (1608) di Pieter Paul Rubens per la Chiesa dei Filippini di Fermo e oggi nella Pinacoteca Civica della città.
Nella sala si affiancano a Caravaggio e a Rubens opere di grande intensità quali il Battesimo di Costantino (1612) di Lorenzo di Bartolomeo detto Baccio Ciarpi, artista toscano, formatosi prima a Firenze presso Santi di Tito poi a Roma, dove subisce il fascino del caravaggismo; ma anche il Sansone e Dalila (1606) di Pietro Sigismondi, lucchese trapiantato a Roma; o la Madonna con il Bambino ai primi passi (1614-15), opera di un altro toscano, il pisano Orazio Gentileschi, immancabile nelle mostre caravaggesche (come la figlia Artemisia presente più avanti con una Cleopatra, 1620 ca.) ma qui presentato con un dipinto inedito di collezione privata databile agli anni di attività nelle Marche.
Completano la prima sala la Fuga da Troia (1610-11), quadro da stanza dipinto da Giovanni Lanfranco per il marchese Orazio Scotti di Sarmato – forse durante un passaggio da Piacenza dopo la prima permanenza a Roma – che risente fortemente dell’esperienza maturata durante l’alunnato presso Annibale Carracci; un raffinato olio su lavagna di Alessandro Turchi detto l’Orbetto raffigurante Dio soffia un alito di vita ad Adamo (1618-20) e due tele del romano Giovanni Antonio Galli detto Spadarino, l’Angelo custode e un ritratto di San Carlo Borromeo, dipinte nel secondo decennio del Seicento.
Una prima sala, quindi, densissima di riferimenti alla cultura figurativa romana dei primi decenni del Seicento, destinata a introdurre le varie tendenze assunte dal caravaggismo e che Paolini avrebbe potuto conoscere e assimilare.

Opere che potremmo definire di contesto, rispetto alla formazione di Paolini, sono esposte anche nella seconda e nella terza sala. Si inizia con una Madonna incoronata (1615-20) di Giovanni Baglione, per proseguire con un Caino e Abele (1620 ca.) recentemente assegnato a Paolo Guidotti detto il Cavalier Borghese e con due tele di Antiveduto Gramatica: una Maddalena (1610-20) e una Santa Francesca Romana (primi anni del Seicento). Di grande impatto è la parete che presenta l’uno accostato all’altro tre San Girolamo rispettivamente del lucchese Pietro Biancucci (prima metà del Seicento), Jusepe de Ribera (1648 ca.) e Valentin de Boulogne (1628), quest’ultimo pendant di un San Giovanni Battista (1629). La possibilità di confrontare le diverse versioni di uno stesso soggetto iconografico permette di capire pienamente le differenze con cui ciascun artista ha appreso e interpretato la lezione luministica: il San Girolamo di Ribera, vero uomo e non solo modello ideale, sorprende per il suo estremo realismo e per un forte pathos, che nella coppia di Le Valentin raggiunge i massimi vertici.
Dal contesto napoletano esce anche la Santa Caterina da Siena che adora il Crocifisso (1622) di Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, realizzata tuttavia dopo il soggiorno a Firenze, quando l’artista si concentra maggiormente sullo studio delle figure e sulla loro monumentalità.

Orazio Riminaldi, poi, con il suo Amore vincitore (1620 ca.) dà conto della diffusione del caravaggismo in Toscana (tematica in parte approfondita nella mostra monografica dedicata al pittore tenutasi a Pisa nel 2021).
Accanto ai soggetti sacri, sono esposti Ercole e Onfale (1617-18) el’Allegoria dei cinque sensi (1620-30) di Giovan Francesco Guerrieri, il primo dipinto forse per Marcantonio Borghese, il secondo proveniente da una collezione privata di una famiglia nobile di Urbino. Le due opere contrastano con La Vergine con il Bambino adorata da san Francesco e santa Barbara (1640-41), dello stesso artista, tela nella quale non vi è spazio per nature morte, fronzoli e raffinatezze a favore della pura devozione.
Nella sala è presente, inoltre, la prima delle quattro sculture contemporanee realizzate da Cesare Inzerillo e Marilena Manzella. Si tratta in questo caso di una gigantesca pera, frutto che richiama la natura morta, genere che negli anni presi in esame passa da soggetto autonomo a elemento decorativo e viceversa.

Introducono la terza sala – dove svetta un enorme sudario – due opere uscite dalla bottega di Bartolomeo Manfredi, Il concerto e I giocatori di carte (1620-30), soggetti di genere interpretati secondo la cosiddetta Manfrediana methodus, ovvero lo studio dei modelli caravaggeschi dai quali singole figure venivano ritagliate e riprese in composizioni diverse.
Le altre tele, di soggetto sacro e profano, portano la riflessione sul concetto di luce quale protagonista del dipinto ad un livello superiore: in Cupido svegliato da Psiche (1620-30) di Trophime Bigot o Candlelight Master, ne Il fumatore o Uomo con pipa (1620-30, della stessa mano) e nel Cristo deriso (1625 ca.) di Giovanni Serodine, infatti, le scene si svolgono a lume di candela, dando ai soggetti una forza espressiva inedita.
Dopo una tela dell’anonimo Maestro dei Vignaioli, si giunge a Francesco Rustici detto il Rustichino (Olindo e Sofronia, 1620 ca.) e Rutilio Manetti (Cattura di Pietro, 1637-39), principali esponenti della corrente che spinge in senso naturalista la pittura senese.
Ecco, infine, il romano Angelo Caroselli, maestro di Pietro Paolini, che a sua volta si ispira a Manfredi e allo stile toscano di Orazio Gentileschi. Impareggiabile è il confronto tra i due Negromanti di Caroselli (1626-36) e Paolini (1630 ca.), rispettivamente donna e uomo.

Si introduce così pienamente la sezione dedicata a Paolini del quale sono esposte opere sacre e profane, scene di genere e allegorie, episodi storici e ritratti. È interessante la varietà con cui il lucchese declina il caravaggismo appreso a Roma; varietà di generi e tipologie, varietà di stili.
Tra i capolavori di Paolini sono i due Martiri: di san Bartolomeo (1633) e di san Ponziano (1633 ca.), che rappresentano l’esordio dell’artista nella città natale, probabilmente su pubblicità dello zio materno, l’abate Andrea Raffaelli. Una committenza per la città di Lucca, in realtà, era già avvenuta con la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina (1626), ma la sua destinazione era privata, la sala dell’assemblea del Consiglio Generale della Repubblica.
Paolini non è solo pittore di storie sacre: Le tre età della vita (1628-29) è una raffinata allegoria della vanitas, tema in voga nelle botteghe romane che aveva frequentato; mentre l’Eccidio degli ufficiali del generale Wallenstein (post 1634) è un fatto di cronaca contemporanea: narra della congiura ordita contro il generale Albrecht Wallenstein e dei suoi ufficiali, massacrati dopo un banchetto dai soldati di Ferdinando II; nella vicenda furono implicati anche Giulio e Fabio di Nicolao Diodati, appartenenti alla famiglia che commissionò il dipinto a Paolini.
Si dimostra, inoltre, ritrattista ne La bottega dell’artista o Ritratto di famiglia (1650 ca.), dipinto dal clima domestico che richiama probabilmente un incontro notturno dell’”Accademia dal naturale”, fondata a Lucca dopo il rientro da Roma.

In una piccola sala, alla presenza di una viola di dimensioni monumentali, i visitatori sono allietati da una composizione originale di Lello Analfino: tutto fa pensare al tema della musica. Il Cantore (1625 ca.) a mezzo busto, colto con la bocca aperta nella quale si intravvedono i fili di saliva, è un bellissimo esempio di naturalismo; ai suoi lati il Concerto a cinque figure (1635-40) e Mondone che suona il liuto (1650 ca.). Nella stanza sono esposti anche l’unico ritratto di Paolini attribuibile a un’identità reale, lo zio Abate Andrea Raffaelli (1637 ca.), e l’Adorazione dei pastori (1635-45), caratterizzata dall’ambientazione notturna, tipologia conosciuta dal pittore a Roma e da cui attinse sapientemente.
La questione luministica e il concetto di ambientazione a lume di candela diventano preponderanti in opere quali il Ritratto d’uomo che scrive al lume di una lucerna (1635-1640), forse un autoritratto del pittore, o l’Allegoria della vita e della morte (1633-1635), in cui un giovane illuminato solo dal tenue bagliore di una lucerna medita davanti a due teschi, con ai lati una giovane (simbolo dell’amore terreno) e un religioso (che rimanda all’amore spirituale).

Particolarmente curiosi sono tre dipinti – il Banchetto musicale, il San Michele Arcangelo e la Santa Caterina d’Alessandria (1650 ca.) – che si caratterizzano per la presenza di una finta cornice dipinta, di color oro, dietro alla quale sono disposti i soggetti che, però, hanno la libertà di uscire e sovrapporsi ad essa.
Conclude la rassegna dedicata a Paolini una coppia di tele di soggetto profano, Cupido dormiente e Cupido forgia le frecce (1650-60), ricche di significati allusivi ma contemporaneamente caratterizzate da grande naturalezza e dolcezza.
Tramite le Compratrici di uova (1670-73), si giunge a uno degli allievi di Paolini, Simone Del Tintore, il quale realizza il dipinto insieme al maestro. La tecnica di Del Tintore è stata definita una sorta di patchwork, ossia una ripresa di alcuni elementi o figure all’interno di diverse composizioni, ricontestualizzandoli o modificandoli volta per volta, come evidente in Zampognaro e vecchia con cane (1680-85), frutto del rimaneggiamento di soggetti già utilizzati altrove.

La sezione successiva, presentata nella sala insieme all’ultima scultura contemporanea, un candelabro, è dedicata a Pietro Ricchi detto il Lucchese, artista toscano formatosi in patria per poi passare a Bologna, in Francia e a Venezia. In una sequenza visiva ben pensata sono presentate Maddalena (1645-50), Salomè con la testa del Battista (1656-59), Giuditta con la testa di Oloferne (1640-45) e La regina Tomiri con la testa di Re Ciro (1650-55), tutte caratterizzate da una pittura fortemente chiaroscurata e a lume di candela, tipologia ancor di più esaltata nella Fumatrice al lume di candela (1653-57).
Si procede con Girolamo Scaglia, altro allievo di Paolini, che dà le proprie versioni di Giuditta e l’ancella Abra con la testa di Oloferne (1660 ca.), più teatrale rispetto a quella di Ricchi, e dell’Allegoria della musica (1670 ca.) in cui, come solito nel gruppo di pittori attorno a Paolini, riprende alcuni brani già elaborati dal maestro. Dall’artista è trattato anche il tema della vanitas ne La caducità della vita e del potere terreno (1665 ca.), un memento mori che ha come protagonista un imperatore romano.
Passando per una collaborazione tra Giovanni Coli e Filippo Gherardi (Ester e Assuero, 1669-70), due tele di Mattia Preti (Giacobbe benedice i figli di Giuseppe, 1660-1680, e Cristo risorto, 1675-1685) e un intenso San Leonardo libera un carcerato (1698) di Antonio Gherardi, si giunge all’ultima sala della mostra.

L’esposizione termina con una sezione dedicata a dieci opere di Giovanni Domenico Lombardi detto l’Omino. L’artista, di origini lucchesi, ebbe una prima formazione nella città natale con il cortonesco Giovanni Marracci, poi si spostò in Lombardia e a Venezia. Ormai varcate le soglie del Settecento, quando la ventata caravaggesca è stemperata da altre tendenze, l’Omino si fa influenzare dal classicismo emiliano di Carracci, Guercino e Lanfranco, come si nota nel Martirio dei santi Giovanni e Paolo (1715-20), o di Maratti (in San Carlo Borromeo comunica gli appestati, 1720 ca.). L’Adorazione dei pastori (1735-40) invece lascia spazio agli stimoli neocorreggeschi, che nella pittura dell’Omino convivono con l’interesse per composizioni più ampie e complesse (La morte di Virginia, 1720-25) o per le scene di genere. L’indovina, la Scena di meretricio e la Scena di seduzione e inganno (1730-35) raccontano di un mondo ormai diverso da quello di Caravaggio, ma in cui sopravvive l’impostazione generale, il taglio, l’inserimento di nature morte. Torna anche a conclusione della mostra il tema della musica, con Concerto con vecchio che suona il violone e due giovani cantori (1720-25), in sicuro dialogo con alcuni dei dipinti di Paolini.

Il visitatore meno aduso alle dinamiche della storia dell’arte moderna (e magari attirato soltanto dal nome di Caravaggio) e che, come unico accompagnamento, ha avuto un’audioguida parca di informazioni sarà certamente giunto alla fine del percorso con alcune domande o dubbi in merito ad alcune scelte allestitive, o forse avrà avuto poco chiaro il delinearsi della struttura della mostra (una parte di contesto, una più propriamente monografica, e una di sviluppi successivi a Paolini). Tuttavia, la qualità e la rarità dei pezzi presentati hanno reso l’esposizione un’occasione unica per approfondire la pittura lucchese del Seicento, e la bellezza delle opere non può che aver sedotto anche l’avventore più inesperto.
Chi non avesse avuto l’occasione di visitare la mostra potrà riviverla tramite le ottime stampe del catalogo (edito da Contemplazioni), con l’invito a rivedere alcuni capolavori di Paolini e a scoprirne di altri nei musei lucchesi di Villa Guinigi e di Palazzo Mansi, ma anche nelle chiese cittadine.
Chiara Dominioni
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