Il gotico in Ancona. Sulle tracce dell’architetto Giorgio di Matteo Orsini da Sebenico

Una presenza eccezionale nel panorama dell’architettura tardomedievale sulla costa adriatica dell’Italia vede protagonista un tale Giorgio; originario della Dalmazia (prossima a diventare veneta) e pertanto fra gli esponenti, insieme al probabilmente coscritto Luciano Laurana, di quella florida stagione di rapporti culturali intercorsi negli anni fra le repubbliche marinare affacciate verso Oriente, non senza benefici anche per le città dell’entroterra, e i più vicini territori della penisola balcanica.

Incarnazione di una figura tipica della sua epoca, quella di un artista versato tanto nella scultura quanto nell’architettura, capace di fonderle entrambe in un solo organismo, questi seppe collocarsi professionalmente nel solco delicato fra il lento e progressivo tramontare degli stilemi gotici e il sorgere, dirompente anche se non immediato, delle forme rinascimentali, facendosi allo stesso tempo interprete di una tradizione consolidata e veicolo per la diffusione di linguaggi in continua mutazione.

Nato probabilmente a Zara ma rimasto legato alla località croata di Sebenico, da cui il patrionimico (qui infatti era stato nominato protomagister della costruenda cattedrale nel giugno 1441, e sempre qui sarebbe morto il 10 ottobre 1473), egli era figlio di un lapicida chiamato Matteo. Inoltre fu padre di un certo Paolo che, preso ad un certo punto il cognome Orsini, lo avrebbe curiosamente trasmesso al proprio genitore; complici equivoche consuetudini perpetuate nel corso del tempo dai cronisti e gli storici dell’arte.

Giorgio di Matteo Orsini da Sebenico è proprio uno di quei personaggi che si lasciano dietro un numero grande di opere in attribuzione continua come di questioni aperte circa la propria biografia; a cominciare dall’anno di nascita, fissato a prima del 1420 da Illeana Chiappini di Sorio. Poco si sa anche del periodo e del luogo in cui compì la sua più tenera formazione, ma sembra di potersi intendere che apprese le basi del mestiere dal padre, e che grazie a lui giunse a Venezia dove entrò in contatto con Giovanni Bono e suo figlio Bartolomeo. Parrebbe infatti che si possa riconoscere nel Sebenico quel “Ser Zorzi di Mathio taiapiera” ritrovato in una lista degli appartenenti alla Confraternita della Scuola di San Cristoforo alla Madonna dell’Orto da Anne Markham Schulz negli anni Settanta del Novecento, e persino lo “Schiavone che fece assai grande Venegia” che Giorgio Vasari cita ad un certo punto nella vita di Brunelleschi del 1568. Ugualmente non si esclude che abbia compiuto soggiorni fiorentini, tale infatti è l’opinione di esperti come Vladimir Peter Goss Gvozdanovic, se è vero (tornando a Vasari) che Brunelleschi fu proprio tra le sue dirette conoscenze, e che il Sebenico ebbe anche modo stringere con Michelozzo, dice invece Fabio Mariano, un rapporto di collaborazione. Proprio Mariano, professore di Disegno architettonico alla Facoltà di Ingegneria di Ancona e professionista impegnato nel restauro di monumenti, ci lascia un giudizio sulla concezione artistica di Sebenico che permette di inquadrarne l’opera e la collocazione rispetto ai contemporanei:

«… affatto ignaro di quanto avveniva in Toscana […], ben conosceva il valore dell’architettura classica, così diffusa e visibile nella sua terra, era ben cosciente dei problemi prospettici che assillavano […] i colleghi più propriamente definibili come “rinascimentali” […]. Giorgio sentiva tuttavia in modo diverso le scelte decorative, si fidava orgogliosamente di quanto delle forme aveva sperimentato sulla pietra d’Istria a Venezia con le sue mani incalliti di scultore, ed erano queste forme laboriose ed organiche, che pochi sapevano scolpire con la sua immediatezza espressionistica, che gli davano – e lui lo sapeva – monopolio professionale. Colonnine e capitelli corinzi “classici” ben li conosceva […] ma li nascondeva, quasi con imbarazzata pudicizia, nei recessi fioriti dei suoi eclatanti portali, come anche fece in Ancona. Giorgio non era più giovanissimo e non voleva probabilmente cambiare i modi consolidati del suo facondo mestiere, né disperdere il patrimonio artigianale della sua vasta e remunerativa bottega» (L’opera di Giorgio di Matteo e il Rinascimento alternativo, in La Loggia dei Mercanti in Ancona e l’opera di Giorgio di Matteo da Sebenico,2003, p. 10)

Forte della sua preparazione e di alcuni successi conquistati in patria come in laguna il Sebenico ottenne così l’occasione di lavorare anche e proprio nella città “dorica”, operando sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiastico, e realizzando alcune delle più singolari costruzioni, figlie di quel gotico che, ormai raggiunto lo status di internazionale, si era nel frattempo insaporito del gusto veneziano.

Fig. 1. Via della Loggia con Palazzo Benincasa

Fra le prime realizzazioni di Sebenico in Ancona troviamo la residenza privata dell’armatore e commerciante Dionisio Benincasa (oggi sede di una collezione di circa 20.000 volumi messi a disposizione della collettività da Franco Amatori, storico dell’economia e docente bocconiano). Situato ai margini dell’insediamento urbano con affaccio sul porto, l’edificio accorpa una serie di preesistenze situate lungo il percorso arcuato dell’attuale Via della Loggia. Proprio l’affaccio su questa strada, larga poco più di 5 metri, costituisce il fronte di rappresentanza; lungo invece 50 metri e sviluppato su tre livelli, senza considerare l’attuale attico che risale invece alla seconda metà del Settecento.  

Fig. 2. La facciata di Palazzo Benincasa

Il suo aspetto è alquanto sobrio. Al pianterreno una successione di ogive, alcune più strette e di conseguenza più basse, posizionate senza un apparente criterio compositivo, richiama il motivo del loggiato di probabile ispirazione veneziana. Il primo e il secondo piano, invece, sono caratterizzati da bifore con archi a tutto sesto e forature trilobate a carena di nave, impostate su cornici modanate ed esili colonne divisorie, a pianta ottagonale e cimate da ricchi capitelli pseudocompositi. Proprio questi elementi ospitano i primi saggi anconetani dell’abilità decorativa che il Sebenico, conosciuto dal facoltoso e colto Benincasa a Venezia, mette a disposizione della città. In linea con il gusto fiorito che ormai si diffonde ad ogni latitudine, i contorni sono bordati da ornamenti nelle fogge più varie: infilate di fogliame acantiforme, tondini che si attorcigliano in giochi continui di concavità e convessità e bassorilievi zoomorfi con successioni di leoni passanti e delfini che guizzano.

Fig. 3. Particolare della facciata con una finestra

Dal 1451 al 1459, Sebenico lavora alla facciata della Loggia dei Mercanti; l’edificio incominciato nove anni prima dall’architetto Giovanni Pace detto Sodo, simbolo di una rispettabile città che vive una stagione di commerci rigogliosi e proficui. Purtroppo l’affaccio su Via della Loggia non facilità l’apprezzamento della complessità della decorazione, ben più ricca di quella di palazzo Benincasa; tuttavia proprio questa ristrettezza di spazi permette alla facciata di imporsi sul visitatore mentre percorre la strada che congiunge Piazza della Repubblica e Piazza Santa Maria.

Fig. 4. La facciata della Loggia dei Mercanti

Due sono i registri orizzontali in cui si divide questo autentico capolavoro, nato per donare lustro alla città sull’Adriatico e celebrare la sua vocazione mercantile. In quello inferiore ci sono archi a sesto acuto, modanati a bastoncino e cavetto e separati l’uno dall’altro per mezzo di colonnine tortili che si cimano in maniera pseudo composita, mentre tondi costituiti da intrecci di foglie d’acanto riempiono i tamponamenti di rinfianco. Il tutto sorregge poi una cornice decorata con due file sovrapposte di foglie, sempre d’acanto. Ma pur conservando in questo modo la struttura medievale, la facciata risente di alcune piccole aggiunte cinquecentesche resesi necessarie dopo un incendio risalente al 1556, e ai cui danni pose rimedio l’intervento di Pellegrino Tibaldi (il quale realizzò pure negli ambienti interni un ciclo di affreschi).

Fig. 5. Particolari della facciata con il loggiato superiore (chiuso per motivi statici) con le statue della Speranza, Fortezza, Giustizia e Carità

È pertanto il secondo registro a testimoniare più genuinamente lo spirito dell’epoca e il genio di un maestro di quel linguaggio che sta già cedendo il passo alle novità, peraltro note allo stesso Sebenico, come si è detto, le quali provengono dalla vicina Toscana e dalle altre corti aggiornate al suo insegnamento. Quattro poderosi pilastri semidecagonali con specchiature, geometrie perpendicolari a rilievo e pinnacoli terminali, presentano delle edicole con baldacchini e nicchie dal catino nerbato a valva di conchiglia per ospitare le statue di due virtù teologali, quelle più esterne, e due cardinali. Fra un pilastro e l’altro la facciata è trattata a balaustra con un motivo a tortiglione che corre sotto il davanzale, specchiature mistilinee che incorniciano iscrizioni (SUMPTIBUS ERECTUM a sinistra, COMUNITATIS ANCONAE a destra) e la rappresentazione a rilievo quasi completo del simbolo di Ancona: il cavaliere in armatura che alza la spada sopra la spalla, in sella ad un cavallo rapante. Sopra la balaustra, con spire ben più spesse e serrate di quanto avviene nel registro inferiore, il motivo tortile ritorna nelle colonne, dai capitelli pseudo compositi, che sorreggono archi a carena di nave percorsi da intrecci di foglie d’acanto che terminano in girali forati nelle tamponature di rinfianco. Una decorazione vegetale, con grandi foglie ricurve e svettanti, percorre anche la grande cornice sotto i pinnacoli.  

Fig. 6. Particolare della facciata con il cavaliere, simbolo di Ancona

Fondata nel 1323 dal vescovo Nicolò degli Ungari, nobile anconetano e francescano convenutale, la chiesa di San Francesco alle Scale vide intervenire il Sebenico nel 1454. Qui realizzò la scalinata d’accesso e il protiro del portare principale, quest’ultimo con echi che provengono della Porta della Carta di Palazzo Ducale a Venezia (realizzata insieme ai Bono). Ancora una volta, la composizione è molto articolata e si sviluppa su due registri sovrapposti. La struttura è incorniciata da robusti ma eleganti pilieri laterali, arricchiti da specchiature, affiancati da colonnine a base poligonale e cimati da capitelli pseudo compositi al registro inferiore e pseudo corinzi a quello superiore; questi pilieri reggono al disopra del registro superiore un baldacchino semiesagonale con tre archi a carena di nave che ospitano dei trilobi mistilinei.

Fig. 7. Il protiro della chiesa di San Francesco alle Scale

I due registri, più il ricco e maestoso coronamento apicale (molto simile nelle forme e nelle decorazioni a quello della Loggia dei Mercanti), sono separati da cornici fitomorfe, ancora una volta con foglie d’acanto posizionate in orizzontale al livello intermedio e in verticale a quello superiore. Lo stesso motivo cinge poi il portale vero e proprio, prima della strombatura mistilinea e dopo una spessa fascia, ricca anch’essa di specchiature, e infine nel secondo registro delimita verticalmente il fregio e la nicchia soprastante. Una nicchia, quest’ultima, nel cui catino figura di nuovo una conchiglia rovesciata; un motivo decorativo e simbolico che torna sovente nell’architettura fisica e dipinta di quel periodo.    

Fig. 8. Particolari del primo registro, da sinistra a destra: santa Chiara, decorazione fitomorfa del portale e testa di leone, successione di teste che circondano lo stipite e parte e parte dell’architrave del portale

Sui pilieri, riparati da baldacchini minori, riproduzioni di quello centrale, quattro santi vegliano sull’entrata della chiesa: santa Chiara, san Bernardino da Siena, sant’Antonio da Padova e san Ludovico da Tolosa. Come loro, una sequenza di teste a tutto tondo che sporgono dalla fascia che incornicia il portale; vi sono uomini barbuti nell’architrave, otto in totale, e in ogni stipite cinque figure maschili di età crescente dal basso verso l’alto, mentre due leoni, uno per lato, completano la sequenza ad un capo e all’altro della stessa. San Francesco, invece, è protagonista della scena scolpita dentro una cornice a ogiva mistilinea, che trova posto dentro al fregio rettangolare sotto alla nicchia. Qui viene ritratto mentre riceve le stimmate alla presenza di una figura, probabilmente frate Leone, che ammira il prodigio, davanti ad una veduta della Verna toscana a bassorilievo. 

Fig. 9. Particolare del secondo registro con il fregio di san Francesco che riceve le stimmate

Dell’intervento del Sebenico sulla chiesa di Sant’Agostino, oggi sconsacrata e adibita a museo delle telecomunicazioni, con intitolazione a Guglielmo Marconi, rimane il sontuoso protiro che si inserisce nella facciata ristrutturata da Luigi Vanvitelli nel Settecento. Commissionatogli nel 1460, esso costituisce l’ultima testimonianza del passaggio dell’artista dalmata nell’Ancona libera e indipendente degli oligarchi mercantili. E il risultato, che trova completamento solo in un secondo momento, e per mano dei suoi collaboratori, sa già di quella transizione dal Tardogotico al Rinascimento, ovvero di una ponderata commistione fra coscienza della tradizione e riscoperta dell’antico.

Fig. 10. Il protiro della chiesa di Sant’Agostino

Riprendendo lo schema adoperato in San Francesco alle Scale, buona parte del ricco apparato decorativo viene eliminato in favore di una più semplice snellezza. I pilieri, diventati quadrangolari, perdono di robustezza e s’ingentiliscono, accontentandosi di iniziare ciascuno da sopra una colonna, ormai propriamente corinzia, scanalata e rudentata. Terminando pur sempre in pinnacoli fiammeggianti. All’imposta di un arco a tutto sesto che delinea la sommità del portale d’ingresso e, salendo di registro, all’imposta di una specie di nicchia, baldacchini quadrangolari con gli stessi archi a carena di nave trilobati ospitano le statue dei santi Monica, Nicola da Tolentino, Simpliciano e del venerabile (forse addirittura beato) Agostino Trionfi, teologo anconetano vissuto fra il Tredicesimo e il Quattordicesimo secolo. Caratterizzata da una scarsa profondità, la nicchia si presenta come un artificio illusionistico che adopera l’andamento curvilineo dei conci più alti per conferire un senso di rotondezza e trasformare l’arco in un catino. Al suo interno una tenda pare scendere dal vestito di una protome femminile, dallo sguardo fermo e sereno, collocata nel sesto ricurvo dell’arco della nicchia, e si aprire in una lunetta dal contorno frastagliato di balze. Qui, ad altorilievo, sant’Agostino è rappresentato mentre ripudia i libri eretici, sollevando con forza le Sacre Scritture e suscitando quasi il terrore dei due angeli che si aggrappano alla tenda sotto la quale sembrano nascondersi, donando al panneggio un movimento energico. Un’epigrafe in latino corre al disotto. Nei rinfianchi dell’arco sul portale, invece, l’Arcangelo a sinistra e la Madonna a destra, con la colomba al centro, inscritta in un tondo fitomorfo, inscenano una pacata annunciazione.

Fig. 11. Particolare del registro superiore, con le statue di san Nicola da Tolentino e del beato Agostino Trionfi. Al centro, il fregio con sant’Agostino d’Ippona che ripudia i libri eretici

Ancora una volta, però, sono le minute decorazioni a costituire la forza creativa del Sebenico; non tanto o non solo i dentelli che arricchiscono la cornice modanata che separa i due registri verticali, i quali concorrono a costituire la vera novità di quest’opera: un ulteriore sconfinamento nell’architettura rinascimentale, cui si richiamano pure le lesene con bassorilievi a grottesca, aggiunte da Michele di Giovanni da Milano e Giovanni Veneziano, interrotte al primo registro da capitelli corinzi e al secondo dalla prosecuzione della cornice, e cimate a forma di pinnacolo.  

La strombatura del portale è un susseguirsi di pilastrini e colonnine, le quali sono tortili, lisce o ricoperte di fogliame; questo si traduce in robusti festoni di quercia oppure in fitte ramificazioni d’acanto dall’aspetto incolto, con queste ultime, come il motivo a tortiglione, che s’interrompono unicamente in presenza della cornice – a sua volta caratterizzata dallo stesso motivo e arricchito da volti leonini e umani, dalle età ed espressioni più diverse, che sporgono tra una foglia e l’altra –, proseguendo poi all’interno dell’archivolto. I festoni, invece, salgono per tutta l’altezza della struttura, affiancando i pilieri, e seguono il contorno della nicchia, ricoprendosi di gattoni all’esterno dell’arco per intrecciarsi in un divergere di racemi svolazzanti. Per finire il grande tondo, posto da Vanvitelli a sostituzione dell’originale rosone, costituito anch’esso a festone di foglie e frutti e decorato da baccellature nella fascia più interna, ospita la piccola ma solenne raffigurazione del Padre Eterno.

Fig. 12. Particolare della decorazione della strombatura del portale

Con questi pochi ma significativi cantieri, Giorgio di Matteo (Orsini) da Sebenico lasciò davvero il segno sul volto di un periodo storico che si fece teatro di epocali scoperte in campo figurativo, e pure di una città, capoluogo di una ricca regione, che come ci ricorda ancora Mariano non ricevette il Rinascimento in ritardo rispetto ad altri territori, ma solo con una sensibilità diversa, e grazie comunque all’intelligenza di figure potenti, economicamente e non meno sotto l’aspetto culturale, come fu quella di Dioniso Benincasa, capaci di scoprire e accentrare i più originali interpreti delle espressioni artistiche più diffuse ed apprezzate.

Niccolò Iacometti

Fonti e materiale di approfondimento: Biblioteca Armatori in Palazzo Benincasa (biblioteca.amatori.com); Dizionario Biografico Treccani (treccani.it); Mariano F. (a cura di), La Loggia dei Mercanti in Ancona e l’opera di Giorgio di Matteo da Sebenico, Ancona, 2003; Markham Schulz A., Giorgio da Sebenico and the Workshop of Giovanni Bon, in The Sculpture of Giovanni and Bartolomeo Bon and their Workshop, 1978; Sito del Comune di Ancona (comuneancona.it); V. Gvozdanovic, The “Schiavone” in Vasari’s vita of Brunelleschi, in Commentari, XXVII, 1976.

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