Il Manierismo e l’Autunno della Maniera

Provare a definire oggi il termine di «Maniera Moderna» non è affar semplice. E non si può certo in queste poche righe fare un riassunto di anni e anni di studi, di questioni, di dispute ancora in fieri. Raccontare poi il crepuscolo di quella intensa e complicata fase pittorica e stilistica è questione ancora più ardua. Un bel libro prova ad affrontare con lucidità e rigore scientifico questi aspetti “da conoscitori”. Si intitola L’Autunno della Maniera. Studi sulla pittura del tardo Cinquecento a Roma, è curato da Michela Corso e Alessia Ulisse e in 94 pagine raccoglie 9 saggi scritti da altrettanti storici dell’arte sotto l’egida di Barbara Agosti, corredati da un ampio apparato illustrativo di tavole a colori e un’ampia bibliografia, per un totale di 188 pagine e un prezzo di 24,90 euro.

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Fig. 1. Copertina del volume: L’Autunno della Maniera. Studi sulla pittura del tardo Cinquecento a Roma.

Il volume è edito da Officina Libraria ed è stato pubblicato nel 2018, ma solo recentemente, chi scrive ha avuto tempo e modo di leggere con qualche attenzione il volume e quindi di proporne una recensione. In tempi in cui siamo costretti a rimanere a casa, nulla può essere più soddisfacente che leggere un buon libro, meglio ancora se di storia dell’arte. Va subito detto che a discapito di un argomento davvero di nicchia e da conoscitori, i saggi raccolti nel volume sono scritti con un linguaggio agile ed estremamente comprensibile anche ai non specialisti. Occorrerebbe forse però, prima di mettersi a leggere questo libro, aver letto qualcosa di più “generico” sull’argomento: mi permetto di suggerire il bel volumetto, anch’esso assai agile nella prosa ma ricchissimo di contenuti, di Antonio Pinelli (Einaudi ed. 1993) La bella Maniera, il quale affronta con grande abilità temi e occasioni figurative sicuramente più frequentate anche dai meno esperti sull’argomento. Lucidissima in particolar modo a parere di chi scrive, la trattazione sul cosiddetto «Sperimentalismo Anticlassico» e sui così detti «Eccentrici» del Cinquecento (termine oggi un poco abusato e forse altrettanto ambiguo e impreciso come quello di Manierismo). Se si avesse tempo e perché no anche coraggio, prima di avvicinarsi all’Autunno della Maniera, bisognerebbe leggere il magistrale saggio di John Shearman sul Manierismo nella traduzione italiana del 1983 (e successive ristampe) e metterlo a confronto con l’altrettanto magistrale lavoro di Giuliano Briganti, La Maniera Italiana edito per la prima volta nel 1961, dopo il grande convengo sul tema tenutosi negli Stati Uniti presso New York, rivisto e aggiornato nell’edizione del 1984. Una volta affrontata tale mole di studi pregressi sull’argomento, e prima di arrivare al nostro libro, occorrerebbe anche, per capire fino in fondo alcuni argomenti trattati dal libro di Michela Corso e Alessia Ulisse, leggersi uno dei più bei libri scritti da Federico Zeri, vale a dire Pittura e Controriforma: l’arte senza tempo di Scipione da Gaeta, edito da Einaudi nel 1957 e riproposto anche nell’edizione del 1979.

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Fig. 2. Copertina del volume: La Bella Maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza.

Nell’Autunno della Maniera, va detto, alcuni saggi risultano più interessanti di altri forse anche per il fatto di aver preventivamente, in anni non sospetti, letto alcuni dei volumi poc’anzi citati. Nel libro ci sono alcuni argomenti di cui, proprio per il fatto di essere di nicchia e per il non aver mai sentito prima alcuni nomi di artisti citati, si fa più fatica a seguire le vicende evolutive sia di ricerca che di scrittura. A dare il via alle ricerche e agli approfondimenti condotti da giovani e meno giovani studiosi di cui si dà conto nel libro, sono stati alcuni fondamentali e pionieristici affondi critici di Federico Zeri, unitamente alla possibilità, da parte degli stessi studiosi, di potersi cimentare con alcune opere conservate presso i musei romani, in particolar modo la Galleria Corsini e la Galleria Borghese. Il periodo analizzato è la fase finale di quel fenomeno artistico che viene chiamato «Maniera Moderna», che a partire dalla prima metà degli anni Venti del Cinquecento, ma con radici e prodromi stilistici nati già entro i primi quindici anni del secolo, aveva condizionato l’operare artistico di alcuni tra i più importanti (e meno importanti) pittori della Roma di Papa Clemente VII. Il trauma del Sacco di Roma (1527), avrebbe poi fatto sì che quella fucina di pittori alla corte clementina avrebbe contribuito a diffondere quel linguaggio figurativo in giro, oltre che in tutta Italia anche per l’Europa, approdando all’abbacinante corte di Francesco I di Valois a Fontainebleau. La fase finale di quel periodo, cronologicamente identificabile nei pontificati di Paolo III Farnese (1534-1549) e Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605) è l’arco di tempo preso in esame nei saggi che costituiscono il volume L’Autunno della Maniera. Il linguaggio figurativo è quello diffuso dalla bottega di Raffaello, a cominciare da Perin Del Vaga a sua volta tramandato dagli allievi di quest’ultimo come Girolamo da Gaeta ossia Girolamo Siciolante da Sermoneta, Pellegrino Tibaldi, Jacopino del Conte e Francesco Salviati unitamente a moltissime altre personalità di secondaria importanza, sparse per tutta la penisola. Il titolo del libro inoltre è una sorta di omaggio al ben più famoso libro di Johan Huizinga dal titolo Autunno del Medioevo nonché a quello di Carlo Ossola del 1971 Autunno del Rinascimento, entrambi incentrati sull’analisi dell’ultima parte di alcuni fatti storici nonché figurativi.  

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Fig. 3. Jacopino del Conte (attribuito a), Sacra Famiglia con San Giovannino, 1548-1549 circa, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini.

Non si può in questa sede parlare di tutti e 9 i saggi contenuti nel volume, ma alcuni, quelli che chi scrive ritiene siano i più interessanti, meritano certamente una breve menzione. Per gli altri lascio ovviamente al lettore il piacere della lettura e della scoperta! È molto interessante il saggio attributivo di Alessia Ulisse sulla Sacra famiglia conservata nella Galleria d’Arte Antica di Palazzo Corsini, già ritenuta da Hermann Voss di Girolamo Siciolante da Sermoneta; attribuzione poi sostenuta anche da Federico Zeri che ne ha colto echi e meditazioni sullo stile di Jacopino del Conte datando l’opera alla prima metà degli anni Quaranta del Cinquecento. Grazie ad alcuni stringenti confronti che la studiosa mostra, come ad esempio quello con la Deposizione (1551-1553) dipinta da Jacopino per l’Oratorio di San Giovanni decollato a Roma, mettendo a confronto le figure femminili delle Marie con quella della Vergine nella tavola Corsini, o ancora confrontando la grande scena di Jacopino del Conte con Clodoveo distrugge gli idoli mentre San Remigio battezza i Franchi (1548) per la cappella Duprè in San Luigi dei Francesi a Roma, in particolare raffrontando la figura della regina Clotilde in basso a sinistra nel dipinto in San Luigi con la Vergine della Sacra Famiglia, arriva a stornare dal catalogo di Girolamo da Gaeta l’opera Corsini per attribuirne la piena paternità alla stessa mano di Jacopino del Conte. La studiosa sottolinea che la cultura figurativa che anima il dipinto deriva da quella michelangiolesca avvicinando all’opera Corsini un bellissimo disegno del Buonarroti con uno Studio di Madonna con Bambino conservato a Casa Buonarroti a Firenze, d’altra parte già rielaborato da Pellegrino Tibaldi per l’Adorazione dei Pastori (1549) della Galleria Borghese, proponendo anche un confronto con un bel disegno del Tibaldi, uno Studio per una Sacra famiglia degli anni Cinquanta del Cinquecento conservato presso il Gabinetto dei disegni degli Uffizi. Il saggio prosegue con alcuni confronti su opere di Girolamo da Gaeta per meglio evidenziare le differenze tra le opere del pittore e la Sacra famiglia Corsini. Basterà osservare con attenzione la Sacra famiglia (1545-1550 circa) di collezione privata, la Sacra famiglia con San Giovannino e l’Arcangelo Michele (1545) della Galleria Nazionale di Parma, la Madonna con il Bambino, San Giovannino e Santo Stefano (1541) conservata a Sermoneta presso il Castello Caetani ma proveniente dall’abbazia di San Pietro e Santo Stefano di Valvisciolo per convincersi che le morbide fisionomie dei personaggi e le esuberanti quanto raffinatissime pieghe dei panneggi di Girolamo Siciolante non si allineano a quelle della Sacra famiglia Corsini, più eleganti, meno frequenti e per certi versi più michelangiolesche, compatibili (forse) con quelle di Jacopino del Conte. L’importanza di questo interessantissimo saggio e dell’analisi della sua opera è costituita anche dal fatto, che la Sacra famiglia Corsini è stata scelta anche per la copertina del volume in esame.

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Fig. 4. Girolamo Siciolante da Sermoneta, Sacra famiglia con San Giovannino e l’Arcangelo Michele, 1545, Parma, Galleria Nazionale.

Altrettanto interessante è il saggio di Michela Corso sulla Lucrezia della Galleria Borghese dipinta da Leonardo Grazia, un pittore originario di Pistoia. Il saggio della Corso ripercorre le vicende dell’opera e cerca di ricostruire i modelli figurativi presi in prestito dal pittore per quest’opera dipinta a olio su lavagna. Il modello da cui questa figura è stata ripresa è verosimilmente un prototipo illustre da individuarsi nel Parmigianino e in particolare, per la posizione del busto di Lucrezia, nella Madonna dal collo lungo oggi agli Uffizi ma proveniente dalla chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma dove giunge nel 1542. Un ulteriore modello appartenente sempre a Parmigianino va rintracciato nella Visione di San Girolamo, dipinta a Roma durante il soggiorno nell’Urbe del pittore tra il 1526 e il 1527. La fortuna dell’opera di Leonardo Grazia si evince nelle numerosissime variazioni sul tema dipinte tutte tra gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento. Si vedano ad esempio la Santa Caterina d’Alessandria di collezione privata o la Cleopatra della Galleria Borghese tutte a mezzo busto, mentre la Venere nuda della Galleria Borghese, l’Ebe della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini e la Cleopatra di collezione privata, lasciano intravedere anche una parte delle gambe e rivelano, nella sensualità della figura serpentinata, meditazioni sulle figure parmigianesche derivanti dalla Lucrezia dipinta dal Mazzola e divulgata in stampa da Enea Vico nella seconda metà degli anni Trenta del XVI secolo.

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Fig. 5. Leonardo Grazia da Pistoia, Lucrezia, 1535-1540 circa, Roma, Galleria Borghese, foto tratta dalla Fototeca Zeri, Bologna.

Nella top three si posiziona il saggio di Marta Perotta sugli affreschi di Francesco Salviati in Palazzo Vecchio a Firenze che cerca di fare luce sulle tempistiche di esecuzione degli affreschi tenendo in considerazione l’evolversi dello stile di Salviati sulla base dell’assimilazione dei caratteri stilistici di Perin del Vaga presso Castel Sant’Angelo a Roma e presso Palazzo Doria a Genova, senza tralasciare i caratteri più raffaelleschi di Cecchino. La prima parte a essere eseguita sarebbe stata, a detta della studiosa, la parete est della Sala delle Udienze (dipinta tra il 1543 e il 1546), dove accanto allo stile raggiunto da Perin del Vaga in Palazzo Doria a Genova sono ancora molto forti, specie nel Trionfo di Furio Camillo, gli echi raffaelleschi declinati da Salviati grazie alle meditazioni sulla Stanza di Costantino di Giulio Romano a Roma e sui Trionfi dipinti dal Pippi nel Palazzo Te a Mantova, opere che Salviati doveva conoscere bene grazie ai suoi soggiorni sia a Roma che nella città della lanterna. Un altro cantiere di aggiornamento è stato per Salviati l’oratorio di San Giovanni Decollato a Roma dove lo stesso artista realizza la Visitazione ed è a stretto contatto sia con Perin del Vaga che con Jacopino del Conte. La parete sud della Sala delle Udienze in Palazzo Vecchio a Firenze dimostra, specie nella scena con il Sacrificio di Isacco, invece la volontà di Salviati di aggiornarsi nuovamente sull’evolversi dello stile del Bonaccorsi, esemplificato come meglio non si potrebbe, nella sala Paolina di Castel Sant’Angelo a Roma. I dipinti della parte sud dovrebbero quindi essere stati dipinti tra il 1547 e il 1548 circa.

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Fig. 6. Francesco Salviati, Sala delle Udienze, parete sud, 1547-1548 circa (?), Firenze, Palazzo Vecchio.

Tra gli altri saggi, una menzione, merita quello di Marco Simone Bolzoni sull’ultimo Salviati ovvero sugli affreschi della cappella dedicata alla Vergine in San Marcello al Corso a Roma di patronato di Matteo Grifoni. Gli affreschi tardi della cappella della Vergine in San Marcello, realizzati tra il 1562 e il 1563, sarebbero direttamente dipendenti (almeno alcuni di essi) dal corpus grafico che Salviati aveva approntato qualche anno prima (1560-1561 circa) per i lavori che dovette eseguire per la decorazione della Sala Regia in Vaticano lasciata incompiuta dai tempi di Paolo III e che il neoeletto Paolo IV aveva tutta l’intenzione di vedere conclusi al più presto. Nel 1560 Salviati di ritorno da un viaggio in Francia era stato ingaggiato a fianco di Daniele da Volterra (il “brachettone” che dipinse i mutandoni, per fortuna a secco, sui nudi del Giudizio Universale di Michelangelo nella cappella Sistina), per completare gli affreschi della Sala Regia. I sei progetti grafici rimasti come testimonianza della genesi dei dipinti della Sala vaticana sono i lavori cronologicamente più prossimi agli affreschi in San Marcello dimostrando una stringente sintonia compositiva; basti pensare ai due studi, oggi alla Royal Collection Queen Elizabeth di Windsor Castle, raffiguranti rispettivamente un papa offre il gonfalone della Chiesa a un doge e un re presenta il globo del potere del pontefice per intendervi un sentire comune.

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Fig. 7. Francesco Salviati, Storie della Vergine, 1562-1563, Roma, San Marcello al Corso, cappella Grifoni.

In ultimo vorrei soffermarmi brevemente sull’interessante saggio di Valentina Balzarotti incentrato su una Deposizione (1573-1574) dimenticata del pittore bolognese Lorenzo Sabatini, un tempo nell’antica basilica di San Pietro in Vaticano e direttamente dipendente dalla famosissima Pietà Bandini di Michelangelo (oggi al Museo Diocesano dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze). Al Sabatini spetta anche un bel disegno (forse preparatorio) per la Deposizione in San Pietro oggi in collezione privata realizzato nei medesimi anni del dipinto. Il saggio della Balzarotti, attraverso l’attenta analisi delle fonti e dei documenti, ricostruisce il contesto e i diversi spostamenti dell’opera di Sabatini all’interno della vecchia San Pietro fino alla sua collocazione presso l’altare della sacrestia comune. La pala oggi si trova in una non meglio precisata posizione all’interno della Città del Vaticano. La fortuna del modello michelangiolesco si riscontra poi in altre opere pittoriche direttamente dipendenti dalla Pietà Bandini e dalla rielaborazione pittorica datane dal Sabatini, come ad esempio l’esemplare realizzato da Antonio Viviani detto il sordo nella cappella Falconi della chiesa di Santa Maria dei Monti a Roma eseguito introno al 1585-1587 o la Deposizione di un ancora anonimo pittore oggi conservata presso la Galleria Nazionale di Parma databile alla metà del Cinquecento.

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Fig. 8. Lorenzo Sabatini, Deposizione, 1573-1574, collezione privata.

Gli altri saggi, tutti davvero molto interessanti, trattano argomenti che sarebbe troppo complicato cercare di riassumere in poche righe e che il lettore curioso deve avere la pazienza di leggere per intero per suo conto, andando alla scoperta di interessantissime, quanto poco conosciute, opere d’arte e artisti, senza tralasciare nemmeno alcuni aspetti legati alla scultura. Come già si accennava sopra, il libro si lascia leggere agevolmente grazie innanzitutto a una lunghezza non eccessiva dei contributi, mai superiori alla decina di pagine e anche grazie a una scrittura piana ma tuttavia ricercata. Molta cura è stata data inoltre alle note, anch’esse agevoli e non eccessivamente pedanti, grazie all’utilizzo del metodo anglosassone. Questo non è un libro, come spesso avviene nei testi sull’argomento, dove il discorso teorico sulla Maniera rischia di diventare preminente e un poco filosofeggiante, ma mette al centro prima di ogni altra cosa le opere d’arte come documenti figurativi. Da quelle testimonianze ogni studioso ha poi sviluppato con acume e capacità critica un discorso quanto più completo e organico possibile, facendo interagire fra loro più metodi di indagine tutti ugualmente validi, adatti a soddisfare i problemi critici che l’opera d’arte ha richiesto nei suoi differenti contesti.

Marco Audisio

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