“Sequenza emozionante di un recente film di animazione colmo di gag, l’eccezionale L’era glaciale (2002) di Chris Wedge: un enorme mammut si ferma davanti ad una serie di disegni dipinti sulla parete di una caverna e rivive, sconvolto, la storia del massacro della sua famiglia. L’idea di questo fumetto preistorico non è così fantasiosa: il desiderio di ricreare il movimento con una serie di immagini fisse è vecchio come il mondo.” (Génin 2003, p. 5).
Parlare di cinema d’animazione così come siamo abituati a fare per distinguere i cartoni animati dai film cosiddetti, grazie nuovamente ad un anglicismo, live action, cioè realizzati adoperando attori in carne e ossa davanti ad una videocamera, sarebbe non soltanto inappropriato ma costituirebbe soprattutto un perfetto esempio di pleonasmo; vale a dire, citando Treccani.it, un’espressione «sovrabbondante, formata con l’aggiunta di una o più parole non necessarie dal punto di vista grammaticale e concettuale».
Se ci pensiamo, infatti, tutto il cinema potrebbe definirsi “animato”, poiché si tratta comunque ed in ogni occasione di una sequenza di immagini statiche – non importa se realizzate con tecniche di matita e simili oppure con strumenti di ripresa fotografica da soggetto vivente – il cui rapido passaggio davanti ai nostri occhi innesca l’illusione del movimento.

È proprio quello che non manca di ricordarci, in maniera accennata ma subitanea, e forse anche precauzionale, Bernard Génin, giornalista cinematografico, ex disegnatore con esperienza nel campo della pubblicità e del disegno animato che nel 2003, insieme al Cahiers du cinéma, prestigiosa rivista di settore, e grazie al contributo del Centro nazionale del libro presso il Ministero della cultura francese, ha pubblicato un breve saggio intitolato proprio Il cinema d’animazione. Dai disegni animati all’immagine di sintesi, riproposto in Italia due anni più tardi per i tipi di Lindau e con la traduzione di Elga Mugellini.
In questo agevole volumetto che conta appena un centinaio di pagine, Génin ripercorre la storia del cinema animato presentandone alcuni fra i protagonisti di maggiore e minore fama dalle origini ai giorni nostri: Walt Disney (immancabile), Max e Dave Fleischer, Tex Avery, Ralph Bakshi, ma anche Nick Park, premio Oscar per Wallace & Gromit, Osamu Tezuka, Hayao Miyazaki, Alexandre Alexeieff o Ladislav Starevič, uno fra i primi ad usare lo stop-motion, solo per citare qualche nome. Non mancano poi diversi approfondimenti interessanti per quanto essenziali, da quello riguardante il processo di realizzazione di un disegno animato tradizionale ad un’analisi critica della filosofia disneyana con i contributi di Sergej M. Ejzenštejn e Frank Capra, passando quindi da alcuni flash sulla tecnica del rotoscopio – sviluppata se non addirittura inventata proprio dai Fleischer, i padri di Betty Boop –, fino alla venuta delle più attuali immagini computerizzate. Si profila in questo modo l’identikit di un genere che, oggi com’è oggi, si è guadagnato la nomea di prodotto per bambini, incapace, a torto, di muovere l’interesse dei più grandi. Seguendo quindi il filo che l’autore ha tracciato, varrebbe forse la pena di riscoprirne la nascita e i trascorsi.

Che sorprenda o meno, bisogna darsi prima di tutto il caso che proprio il cinema d’animazione vanti, rispetto alla sua omologa e più celebrata controparte, fatta di attori veri e location tridimensionali, il primato di una maggiore anzianità. D’altro canto i fratelli Auguste e Louis Lumière non avevano ancora tenuto a battesimo l’esordio fra i divertimenti popolati delle sale cinematografiche quando, già nel XVII secolo, in Francia si facevano spettacoli di ombre cinesi e, soprattutto, di lanterne magiche; gli antesignani di una forma di rappresentazione diversa rispetto ai più usuali teatri d’opera e di prosa. E nonostante si trattasse ancora di semplici giochi ottici e bizzarri sollazzi per l’ozio dei nobili o per allietare le pesanti giornate delle classi più semplici, tale fu il loro diffondersi che, un paio di secoli più tardi, vennero messi a punto nuovi metodi di sfruttare quel principio, oggi ben noto, che è alla base di ogni esperienza visiva: la persistenza dell’immagine sulla retina. Così, nel 1832, Joseph Plateau, un fisico belga, inventò il fenachistoscopio: nient’altro che un balocco, tale viene ancora adesso riproposto occasionalmente ai più giovani, costituito da un disco di cartone fessurato sul cui bordo si raffigura un soggetto nei vari momenti del compiere un’azione qualsiasi. Nel 1878, invece, il britannico Eadweard Muybridge dimostrò per primo come un simile principio potesse trovare un alleato ideale nella fotografia, realizzando le famose sequenze di nudi in movimento e cavalli al galoppo. E per finire, nel 1882 toccò al fisiologo francese Ètienne-Jules Marey lasciare interdetti gli abitanti di Posillipo con un fucile che, invece di sparare, scattava fotogrammi in successione, onde registrare a scopo di studio il movimento di uomini e di uccelli in volo.
La stagione degli esperimenti precinematografici, tuttavia, si chiuse nel 1892, quando un altro francese, Charles-Émile Reynaud, già inventore del prassinoscopio, evoluzione dell’apparecchio di Plateau, presentò il “teatro ottico” al Musée Grévin di Parigi. Fu una rivoluzione, perché si passò dal ripetere ciclicamente una decina scarsa di immagini, per un divertimento breve ed estemporaneo, alla riproduzione di situazioni complesse alle quali potesse essere associata una storia da raccontare nell’arco di tempi sempre più lunghi. Tra il 1892 e il 1900, cortometraggi disegnati a mano su pellicole di gelatina flessibile, incorniciate di cartone e proiettate mediante la riflessione su di uno specchio, intitolati Pauvre Pierrot o Clown e ses chiens, diventarono la novità parigina.

Da lì in poi il progresso fu inarrestabile e il mezzo del cartone animato non mancò di attirare l’attenzione di chiunque avesse già un piede nel mondo dello spettacolo, artisti del vaudeville con talento per il disegno e imprenditori volenterosi di mettersi in gioco. Nel frattempo erano andati in scena, sempre a Parigi, al Salon indien du Grand Café, per l’esattezza il 28 dicembre 1895, L’arrivée d’un train en gare de la Ciotat e altre piccole riprese dei Lumière, ma questo non sembrò dare per inteso che potessero esistere differenze nette e contrapposizioni di sorta fra l’una e l’altra forma di spettacolo cinematografico. L’influenza reciproca, anzi, fece da collante e permise di veicolare in entrambe le direzioni una serie di perfezionamenti e innovazioni riguardanti sia l’aspetto tecnologico del fare cinema, sia il suo piano espressivo e narrativo.
Nel 1905, con El hotel eléctrico, il catalano Segundo de Chomón diede prova di come si potessero realizzare effetti visivi semplici ma efficaci fermando la ripresa per cambiare gli oggetti e gli attori nell’inquadratura; una scoperta della quale in quegli anni medesimi avrebbe fatto tesoro Georges Méliès, unendo ad essa la propria esperienza di illusionista. Un anno dopo, in America, sulla stessa falsariga l’inglese James Stuart Blackton, fondatore di una delle prime e maggiormente prolifiche case cinematografiche all’epoca del muto (di cui sarebbero stati eredi i fratelli Warner, o Warner Bros.), presentò L’albergo stregato: cinque minuti di proiezione in cui si combinavano la pantomima con l’animazione di oggetti altrettanto reali. Fu però ancora una volta nella capitale francese, il 17 agosto 1908, al Théâtre du Gymnase, che Émile Cohl mise in scena Fantasmagoria, e Bernard Génin ricorda come proprio questo sia considerato «il primo “disegno animato” della storia del cinema» (p. 9), nel quale la semplicità infantile e lineare del modo in cui sono rappresentati alcuni omini sposa felicemente lo spessore umoristico.
Negli anni successivi fu compito dell’americano Winsor McCay proseguire gli esperimenti fino allora condotti, portando gli appena due minuti di Fantasmagoria agli otto de Il naufragio del Lusitania; quest’ultimo tra l’altro ispirato ad un fatto di cronaca di allora. Fu pertanto oltreoceano che dallo spettacolo autoprodotto si passò alla fase matura, «quella della grande industria, con la comparsa delle grandi équipe raggruppate in studi e della lavorazione a catena» (ivi). E a questo non mancarono di contribuire invenzioni come quelle di Raoul Barré, il quale aveva messo a punto un sistema di perforazione della pellicola che permettesse di collocare accuratamente i disegni gli uni rispetto agli altri, e della coppia formata da John Randolph Bray ed Earl Hurd che aveva incominciato ad utilizzare celluloide trasparente per elaborare a parte gli sfondi dai personaggi.

Ad imprimere una svolta nuova nell’ambito di quella che era diventata ormai un’industria a tutti gli effetti fu Pat Sullivan insieme a Otto Messmer con Felix il gatto e, successivamente, i fratelli Max e Dave Fleischer (non solo grazie a Betty Boop ma impossessandosi, più tardi, anche di creature altrui, da Braccio di Ferro di Elzie Crisler Segar a Superman di Jerry Siegel e Joe Shuster). Prima ancora di Topolino, storica invenzione di Walt Disney e del quasi dimenticato Ub Iwerks, Felix di Sullivan e Messmer assurse a vera e propria icona popolare: «Il suo successo» scrive Génin «lo rese quasi un rivale di vere star come Charlie Chaplin e Buster Keaton! […] Otto Messner aveva lavorato su una dozzina di film d’animazione ispirati a Charlot. Chaplin gli aveva mandato delle foto nei panni di quest’ultimo in varie pose, per ispirare meglio la gestualità di Felix» (p. 11).

Quando poi, nel 1928, Walt Disney debuttò con Steamboat Willie, passò definitivamente ad altra mano il testimone di quel fenomeno per cui ad un personaggio di fantasia potevano essere dedicati non soltanto bambolotti e arredi per le stanze dei bambini, ma addirittura cucchiaini da caffè, coperchi per radiatori e fermacravatta. A quel punto fu la spinta competitiva a portare alla luce e a fare fortuna lo spettacolo hollywoodiano, fra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Nel giro di poco tempo si ebbero quindi nelle sale i primi due lungometraggi della storia ad essere completamente animati, nel senso che ormai siamo abituati ad utilizzare: Biancaneve e i sette nani della Disney (1937) e I viaggi di Gulliver degli estinti Fleischer Studios (1939). Ad essi si affiancarono poi numerosi altri disegnatori come ad esempio William Hanna e Joseph Barbera, laddove intanto la MGM aveva istituito una sezione dedicata ai cartoni, oppure il trio formato da Bob Clampett, Chuck Jones e Tex Avery, vere e proprie fucine di gag che solo attraverso un mezzo così illimitatamente permissivo nei confronti delle loro immaginazioni parossistiche e strampalate, com’è appunto il cartone animato, avrebbero potuto mettere in scena. E fu così che nacquero Tom e Jerry, i Looney Tunes e Woody Woodpecker di Walter Lantz, il cui successo nei decenni a venire, una volta che tramontò per loro l’epoca del grande schermo, sarebbe stato garantito dall’avvento della televisione.

Contemporaneamente, altri paesi non rimasero indietro su questa linea. I primi esperimenti di animazione giapponese risalivano già al 1913, quando nel secondo dopoguerra lo studio di produzione Toei, ancora oggi esistente, realizzò e distribuì con successo il primo lungometraggio d’animazione giapponese: La leggenda del serpente bianco di Taihi Yabushita, del 1956. Proprio da quelle parti la comparsa dell’intrattenimento a domicilio messo in circolazione attraverso gli apparecchi ad impulsi catodici fu la ragione per cui gli anime prosperarono oltre l’immaginabile, caratterizzandosi tuttavia allo stesso tempo anche per una qualità tecnica non sempre ai massimi livelli e per un disegno spesso ridotto all’essenziale. Il che fu dovuto alla necessità, alla quale pure gli Americani non poterono sottrarsi, ad un certo punto, di lavorare in economia per soddisfare un impegno preso settimanalmente con i più giovani.
In quegli stessi anni, la Francia che aveva visto nascere il cinema d’animazione cercava di rimettersi a sua volta in pari con gli strumenti al proprio servizio; meno sofisticati rispetto a quelli americani, e cercando forse di proporre un tipo di spettacolo meno leggero. La pastorella e lo spazzacamino del 1953, frutto della collaborazione in un affiatato sodalizio tra il poeta Jacques Prévert – talentuoso e richiestissimo dialoghista cinematografico – e il disegnatore Paul Grimault, rappresentò molto bene questa volontà. Salvo essere allo stesso tempo misconosciuto dai suoi autori, i quali non sopportarono di essersi lasciati influenzare dalle pressioni dei produttori.
Addirittura l’Europa orientale, teatro di drammi politici che hanno lasciato nella Storia ferite indelebili, seppe distinguersi nell’adottare tanto la settima arte quanto il suo corollario a disegni. Il più grande e più famoso studio d’animazione russo, di nome Sojuzmul’tfil’m, venne fondato nel 1936, e nell’eterna gara con gli Stati Uniti – che già all’epoca vedeva contrapposte le due superpotenze non soltanto nella corsa agli armamenti, oltreché allo spazio – su questo fronte i russi la spuntarono almeno una volta quando gli eredi di Hans Christian Andersen, invece che a Walt Disney, cedettero a Lev Atamanov i diritti per realizzare La regina delle nevi, primo premio di categoria alla XVIII Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1957.

E mentre nel 1972, a Cannes, Ralph Bakshi si presentava con il primo film d’animazione vietato ai minori di 12 anni, Fritz il gatto, insinuando la possibilità che il genere potesse essere destinato anche agli adulti, trattando temi a loro appropriati, fu di nuovo sull’aspetto della tecnologia e delle sue possibili ricadute espressive che all’improvviso si concentrano le nuove ricerche. La faim di Peter Foldes, uscito nel 1974, fu il primo film ad essere stato realizzato impiegando un computer, e aprì la strada ad una serie di ricerche che durano ancora oggi, e i cui risultati, più di quelle esperienze maggiormente remote che, in estrema sintesi, abbiamo cercato di ricordare, sono sotto gli occhi di tutti.
Dal canto proprio, Génin non manca di riportare come la sperimentazione abbia riguardato non solo i cartoni animati, in un clima, si potrebbe dire, di ritrovata armonia e con buona pace di chi ancora non fosse convinto che parlare di animazione come elemento discriminante sarebbe concettualmente improprio. Nel 1982, la Disney produsse Tron di Steven Lisberger, e nel 1991 metodi di animazione digitale maggiormente sofisticate furono impiegati in Terminator – Il giorno del giudizio, al quale fecero seguito film come Jurassic Park del 1993 e relativi seguiti, o The Mask del 1994, fino ai più recenti e comunque a loro tempo pionieristici Final Fantasy (2001), nel quale personaggi che sembrano interpretati da attori reali sono stati interamente realizzati digitalmente, e la trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson (2002). Con La Bella e la Bestia (1992), Il re leone (1994) e Il gobbo di Notre-Dame (1996) fu però nuovamente la Disney a sancire l’ingresso ufficiale dell’informatica nella produzione di lungometraggi a disegni animati, applicando miratamente il nuovo strumento o alla creazione di sfondi che l’occhio dello spettatore potesse percorrere in ogni direzione, facilitato da meno artificiosi processi di realizzazione non più bidimensionale, oppure a scene di massa troppo impegnative da gestire a matita. Ma la grande rivoluzione si ebbe con Toy Story – Il mondo dei giocattoli (1995), il cui successo invogliò, come già era accaduto, una salutare concorrenza fra colossi e studi emergenti in grado di portare novità e perfezionamenti. Alla fine, gli sforzi sono stati premiati: Shrek (2001) andò in competizione al Festival di Cannes, allo stesso livello dei film a ripresa reale e si aggiudicò persino il premio dell’Educazione nazionale.
Sorge spontaneo domandarsi, a questo punto, cos’avrebbero dovuto pensare tutte queste persone, a cominciare da Reynaud e Cohl, se addirittura i Lumière abbandonarono l’impresa del cinema poiché ritennero che l’invenzione non dovesse avere mai un futuro. Come andarono le cose, dopotutto, è storia. (That’s all, folk!).
Niccolò Iacometti
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