Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

“Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato.
[…] Ho scritto soltanto quello che ricordavo. Perciò, se si legge questo libro come una cronaca, si obbietterà che presenta infinite lacune. Benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedigli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare.
E vi sono anche molte cose che pure ricordavo, e che ho tralasciato di scrivere; e fra queste molte che mi riguardano direttamente.
Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia. Devo aggiungere che, nel corso della mia infanzia e adolescenza, mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me. Questo è, in parte quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito.”

Così inizia Lessico famigliare, il romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1963 da Einaudi e vincitore in quello stesso anno del premio Strega. Con questa avvertenza, che precede la narrazione, l’autrice vuole indicare al lettore il modo migliore per approcciarsi al suo testo, che non è un romanzo di invenzione e contiene quindi qualcosa di molto personale e intimo, che ha perciò richiesto uno sforzo maggiore per essere scritto.

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L’autrice del romanzo Natalia Ginzburg

Subito da queste prime parole emerge il tema del ricordo: a volte, soprattutto nella prima parte del romanzo, l’autrice riporta avvenimenti che riguardano persone che non ha nemmeno conosciuto, ma che hanno continuato ad essere protagoniste di aneddoti all’interno della famiglia, anche dopo la loro morte. La stessa Ginzburg è venuta a conoscenza di certi episodi grazie alla memoria collettiva della famiglia, grazie ai racconti della madre e del padre.
L’autrice ci dice subito che la sua figura, la sua vita e alcuni avvenimenti che la riguardano non sono oggetto del romanzo e questo viene confermato leggendolo, infatti, sebbene sia una narrazione in prima persona e chi racconti sia proprio la Ginzburg, la sua figura sembra in secondo piano, fino quasi alla seconda metà del romanzo non sappiamo quasi nulla della sua vita personale mentre a mano a mano veniamo a conoscenza dello sviluppo delle vite dei suoi famigliari. La Ginzburg ci descrive i caratteri dei suoi fratelli e di sua sorella, ci racconta momenti importanti delle loro vite, narra i loro amori e i loro matrimoni ma non fa questo di sé, rimanendo un personaggio indefinito.
La famiglia Levi è una famiglia di ebrei che abita a Torino e vive momenti molto duri durante il ventennio fascista e durante la seconda guerra mondiale, ma questi momenti sono solo accennati, solo sfiorati di quando in quando, non costituiscono il nucleo fondamentale del romanzo. Il dolore così come la figura dell’autrice è in secondo piano.
Il lessico, così come indicato dal titolo, l’insieme di espressioni comuni proprie della famiglia Levi, è il fulcro del romanzo, su cui si concentra l’attenzione della Ginzburg. L’autrice colleziona frammenti di vita facendo riferimento a quelle espressioni che tanto spesso aveva sentito ripetere da sua madre e suo padre e che avevano influenzato l’intera famiglia, creando una specie di sotto codice. Espressioni che per le altre persone non hanno nulla di speciale, e non significano nulla, per l’autrice e per la sua famiglia diventano ricordi di diverse situazioni passate, diventano un elemento accomunante e distintivo.

“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!”.”

Ricordando Pavese
Lo scrittore Cesare Pavese

Uno degli aspetti che più ho apprezzato del romanzo è questa sensazione di famigliarità che l’autrice riesce a trasmettere al lettore, i vari componenti del nucleo familiare ci vengono presentati con disinvoltura, con affetto e con grande tatto. Spiccano su tutte le altre le figure quelle dei genitori, che vengono tratteggiati vividamente e con profondità.
L’altra cosa che più mi ha interessato sono i momenti in cui la Ginzburg si sofferma sulla nascita e lo sviluppo della casa editrice Einaudi, un mondo culturale popolato da figure di intellettuali di spicco che ancora oggi rimpiangiamo. La descrizione di Felice Balbo, di Leone Ginzburg (il marito dell’autrice) e di Cesare Pavese sono ricche di dettagli e da queste riesce a trasparire il profondo affetto che la Ginzburg provava nei loro confronti, avendo collaborato anch’ella per molti anni alla casa editrice.

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Lo scrittore Italo Calvino

È un libro assolutamente consigliato per tutti coloro che ricercano una bella narrazione, realizzata in modo particolare e unico e anche per tutti coloro che vogliono fare la conoscenza di una grande autrice del novecento e avvicinarsi al mondo culturale che ha portato alla fondazione della Einaudi e che ha visto come protagonisti personaggi come Pavese, Calvino e Vittorini.

Alessandro Audisio

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