Achille Castiglioni: l’uomo che inventò il design

Palazzo dell’Arte a Milano, situato al numero 6 di viale Emilio Alemagna, il quale costeggia Parco Sempione, nel cuore del capoluogo lombardo, venne alla luce tra il 1931 e il 1933 sotto gli occhi del suo progettista (l’architetto Giovanni Muzio). Scopo dell’edificio: ospitare le esposizioni che di tre anni in tre anni, più o meno regolarmente, avrebbero fatto conoscere le ultime tendenze in fatto di architettura e design; appunto, le ormai ventuno edizioni della Triennale.
Dal 6 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019, questo luogo celebra un artista tra i più significativi del secondo Novecento nonché uno dei suoi ospiti più abituali.

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Fig. 1 Palazzo dell’Arte, sede della Triennale di Milano.

Nel clima intellettualmente vivace della Milano post-bellica e del boom economico, in cui la Storia l’aveva calato, Achille Castiglioni (1918-2002) non avrebbe potuto essere che un protagonista d’eccezione. Terzo figlio di un noto scultore, aveva seguito le orme dei fratelli, Livio e Pier Giacomo, laureandosi al Politecnico e poi raggiungendoli a lavorare nello studio di corso di Porta Nuova, successivamente trasferito in piazza Castello – non lontano dal Palazzo dell’Arte – dove oggi risiede la fondazione a lui intitolata. Prolifico e versatile, brillante e un po’ eccentrico, nel corso di una lunga carriera ha progettato mobili, suppellettili, interni e apparati effimeri, provando di avere una creatività e un genio che gli sono valsi nove compassi d’oro, il premio conferito dall’Associazione per il Disegno Industriale la quale egli stesso aveva contribuito a fondare, la stima dei colleghi, i quali molto spesso diventavano suoi collaboratori, e un paio di incarichi come docente all’università.

Cent’anni orsono dalla nascita, Milano lo ricorda con una grande mostra. “A Castiglioni”, tuttavia, non vuol essere solamente l’omaggio a un’eminente firma, icona e padre nobile del nostro design. Patricia Urquiola, curatrice di questa retrospettiva (che tale non apprezzerebbe di essere chiamata, stando a quello che si legge nel catalogo), mette in scena l’accorato ringraziamento di un’allieva al suo maestro, con il risultato di un allestimento indubitabilmente accattivante, scenografico e colorato. Peraltro, scegliendo di non ripercorrere, anno dopo anno, progetto dopo progetto, la vita di Castiglioni, ma individuando alcune tematiche dalla sua opera omnia cui dare corpo attraverso l’esposizione dei suoi capolavori. Non tutto, però, sembra che sia stato orchestrato nel migliore dei modi.

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Fig. 2 Achille Castiglioni.

L’intera esposizione è una valanga di pezzi, tra esemplari delle sue creazioni con i relativi disegni e le fotografie che ritraggono il designer, nelle più svariate situazioni, alle prese con esse: mentre le collauda oppure le presenta a un ristretto gruppo di amici. Tutto imbastisce una narrazione a 360°, quasi volesse riportare in vita Castiglioni sotto i nostri occhi e farci conoscere, questo sì, lodevolmente, aspetti poco noti della sua attività; quali ad esempio la progettazione d’interni e, addirittura, la scenografia per la televisione. C’è veramente tanto da vedere e, anche volendo, fare un’analisi di ogni singolo tema (o cluster, come vengono chiamati) o semplicemente una scelta che sia veramente esaustiva delle tante opere da raccontare richiederebbe molto più di una recensione.

Se comunque l’approccio espositivo non pregiudica la fruizione della mostra nella sua prima parte, dove il percorso è meglio definito attraverso una successione chiara degli ambienti, saliti al secondo piano l’occhio si ritrova in un costante smarrimento, una situazione in cui, desideroso di appagare la sua curiosità, stimolata davvero su troppi fronti, egli non sa più dove guardare. Qui predomina, quasi arrendevolmente, una logica open space. Inoltre, tra espositori collettivi (in un caso, anche girevole) e giochi di specchi, l’impressione è quella di trovarsi, da qui in avanti, nello showroom di un negozio di modernariato dal gusto equivoco oppure in un parco divertimenti.

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Fig. 3 Alcune immagini dell’esposizione.

La visita, d’altro canto, inizia in una sala con un assortimento di opere tra architettura e design; qui spicca la poltroncina Babela, realizzata per Gavina da Achille e Pier Giacomo nel 1958. Ma soprattutto, lascia divertiti trovarsi ai piedi di alcune riproduzioni fuori misura della lampada Arco, l’opera più famosa di Castiglioni (realizzata nel 1962, ed esposta nella seconda parte della mostra), che illuminano l’esposizione. Almeno in questa prima parte, il concept di una mostra che sia un po’ come un grande teatro, un caleidoscopio di oggetti o un labirinto delle meraviglie, appare tutto sommato godibile e non disturba più di tanto. Dà all’osservare i frutti di quell’ingegno giocoso e formidabile del quale Castiglioni era capace: i tavoli Leonardo e Bramante, entrambi del 1950, i quali recuperano l’idea di una superficie poggiata su cavalletti, la sedia Spluga, del 1960, messa a disposizione per il visitatore affaticato (a rimarcare l’utilizzabilità finale di un oggetto che, in qualche modo, vuole essere anche opera d’arte) e usata allo stesso modo dello sgabello Allunaggio, del 1966, ripetuto poi al piano di sopra come oggetto esposto, peraltro montato in cima a una parete, e lo scrittoio Rampa, del 1965, i cui gradoni possono essere usati come piano d’appoggio.

Tra una sezione e l’altra della mostra, il visitatore può sostare in un ambiente buio e lasciarsi circondare da uno spettacolo di luci, voci, suoni, rumori e musica che egli stesso attiva con i propri movimenti; all’ingresso sentirà dire: «Avanti!», e poi Castiglioni raccontare i segreti della sua filosofia artistica. Si tratta dell’istallazione (traparentesi), un gioco di parole con il nome della lampada inventata da Castiglioni medesimo e Pio Manzù nel 1971, chiamata appunto Patentesi, e qui ripetuta in un numero di esemplari che popolano l’ambiente come alberi in una foresta.

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Fig. 4 Da sinistra a destra: lampada Arco, sgabello Allunaggio, scrivania Rampa.

La vocazione di Castiglioni all’utilizzo di materiali poveri, insoliti o comunque di altro utilizzo (in omaggio alla lezione di Marcel Duchamp, come ci fa notare l’architetto Stefano Boeri) si compie però in opere che non mancano all’appello in questa mostra veramente ricca e completa, come il posacenere Spirale del 1971, in cui una molla distesa all’interno della circonferenza del recipiente serve a poggiare la sigaretta (oggetto di un piacere del quale il nostro non poteva fare a meno), o i sedili Mezzadro e Sella del 1957, i quali utilizzano come seduta rispettivamente un sedile da trattore e il sellino di una bicicletta, mantenendo e ricreando, il primo, anche il sistema di ammortizzazione presente sulle macchine agricole, e inventando per il secondo la possibilità di inclinarsi così da offrire un appoggio temporaneo a chi sta intrattenendo una conversazione telefonica.

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Fig. 5 Da sinistra a destra: posacenere Spirale, sedile Mezzadro, sedile Sella.

In conclusione, nonostante i suoi difetti, questa mostra non delude le aspettative. Vale anche la pena di acquistare il catalogo (per quanto insolito nel presentare i testi introduttivi al centro e le immagini talora sovrapposte come in un collage), prezioso materiale di approfondimento e guida illustrata al lascito di una tra le più grandi menti creative mai esistite e che abbiano mai operato durante l’epoca d’oro del design.

Niccolò Iacometti

Post scriptum, piccola curiosità: il foro nella base di marmo della lampada Arco serve a infilare il manico di una scopa per facilitarne lo spostamento durante le normali pulizie di casa.

 

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