Una storia del nudo artistico nell’Ottocento, a cavallo dell’esposizione di Olympia di Manet, potrebbe essere sintetizzata ma non per questo riassunta attraverso il confronto fra due esempi di pittura mai così diversi per quanto, a occhi inesperti, in apparenza tanto simili. Due esempi, bisogna riconoscere, presi forse anche troppo liberamente dal vasto ed eterogeneo corpus di opere le quali hanno trattato questo soggetto, e che è stato uno dei prodotti di quello che Philippe Daverio ha ribattezzato il secolo lungo della modernità. Consideriamo pertanto da una parte Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867), caposaldo del pensiero figurativo europeo, e dall’altra l’inglese Solomon Joseph Solomon (1860-1927), il cui nome è di sicuro meno conosciuto – oltreché piuttosto ridondante – e merita perlomeno di essere annoverato nella lista di coloro che durante la prima guerra mondiale si sono prestati alla sperimentazione pionieristica del camuffamento militare.
Il filo che lega questi due artisti separati da numerose generazioni, in un periodo complesso e articolato, nonché pieno di sconvolgimenti, tanto nella società quanto nell’arte, è la differenza che intercorre fra due modi di concepire il nudo prima ancora di rappresentarlo, e sarà proprio lo sviluppo di questa diversità ad accompagnare uno dei generi più fortunati all’inesorabile declino. Per accorgersene, basta osservare innanzitutto un dipinto come Edipo e la Sfinge, realizzato a partire dal 1808 fino al 1827. In questa tela di soggetto mitologico nella quale il corpo viene ritratto a grandezza naturale, ci accorgiamo infatti di come Ingres, formatosi nel solco della tradizione neoclassica, abbia dimostrato cosa significasse per gli artisti del suo tempo l’ideale del nudo di ispirazione greco-latina.

A cominciare dalla postura eroica, nonostante il personaggio principale sia colto nell’atto di rivolgersi alla Sfinge, quasi confidenzialmente, e armato solo della propria sicurezza (oltreché di un paio di lance rivolte verso il basso), ogni cosa insino alla fisionomia del profilo testimonia la solerzia dell’artista nell’aver condotto una ricerca sull’antico che potesse restituirne ai contemporanei un’interpretazione misurata e quanto più ossequiosa. Non bisogna dimenticare che, dal 1806, Ingres si trovava a Roma, dov’era arrivato come titolare di una rinomata borsa di studio. Qui, in ragione del suo talento, l’Académie royale de peinture e de sculpure con sede a Parigi gli aveva concesso il privilegio di studiare le antichità dal vero; insieme ai lasciti nella capitale dello Stato pontificio degli artisti del Quattro e Cinquecento, fra cui spiccava, nient’affatto ultimo, il divino urbinate. Ma una volta raffinata con l’esperienza sul campo la sua conoscenza fatta sulle copie in gesso e sui disegni dei suoi professori, e concluso i propri obblighi di studente, la sua concezione del nudo accademico subì un mutamento che divenne, neanche molti anni dopo, la sua cifra stilistica. Per dirla come Federica Rovati (L’arte dell’Ottocento, Einaudi 2017), «Ingres avrebbe sempre dichiarato che l’anatomia era una disciplina così noiosa che proprio non valeva la pena studiarla».
Guardando invece oltremanica, l’esperienza di un pittore come Solomon non può che ricordarci una verità pacifica. Dal momento infatti che questo genere, il quale spazia dalla Storia alla letteratura classica, in modo tale da potersi coniugare alla raffigurazione del nudo, frattanto non esce di scena, il suo riproporsi di continuo sul mercato dell’arte finisce per venire in uggia. E il dipinto forse più noto di questo artista, anch’egli figlio della migliore tradizione accademica, non a caso racconta la vicenda di Aiace Oileo, un personaggio dell’Iliade e dell’Eneide, che rapisce la sacerdotessa troiana Cassandra in cima alle monumentali scade del tempio di Apollo, non dimenticando alcuno dei vari crismi che l’occasione imponeva.

Il cambio di registro è palese. Abbandonata la compostezza e lo splendore che si erano protratti fino agli inizi del secolo, nell’atmosfera cupa e drammatica in cui regnano contrasti gelidi tanto il nudo quanto la posa di Aiace funzionano solo ad un’esibizione di machismo, resa esasperata da una postura con il piede sulla base della statua retrostante come se lui fosse pronto a spiccare un balzo per uscire dal quadro. Allo stesso tempo il modo in cui viene rappresentata la tragedia della fanciulla rapita, eccessivamente patetica, non risparmia alcuno spazio al sensuale, dovendo probabilmente attenuare, e scadendo addirittura nel ridicolo (si guardi alla veste di lei che rimanendo impigliata scopre il seno gonfio e strabico), un erotismo con il quale altri pittori di quegli anni non si erano fatti problemi a suscitare l’indignazione dei frequentatori di mostre più ammodino.
Si avvia in questo modo a conclusione una parabola in discesa, e al tramonto di un genere che nel frattempo ha dovuto arrendersi all’affermazione del quotidiano nella pittura, corrisponde necessariamente l’inverarsi della profezia di Géricault: il naufragio di un modello che si pensava dovesse essere eterno. Ma perché questo fosse possibile, sarebbe stato necessario che Manet scoprisse l’ipocrisia dei suoi contemporanei, e aprisse la strada a un modo di rappresentare il corpo che non si arrogasse più di essere elevato e libero da accuse d’indecenza, purché fosse ammantato di rimandi colti, presunti e pretestuosi.
Niccolò Iacometti
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