Gaudenzio Memorial: una recensione

Gaudenzio Memorial è il primo volume della collana Memorials curato dagli storici dell’arte Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa edito da Officina Libraria. Il volumetto di forma rettangolare e dalle dimensioni contenute è costituito da 143 pagine e costa 18,90 euro. Il libro si costituisce di tre parti: la prima è una sorta di album fotografico le cui immagini esemplificano l’allestimento, curato da Rino Simonetti, della mostra sul pittore valsesiano Gaudenzio Ferrari andata in scena nel 2018 nelle tre sedi di Varallo (Pinacoteca Civica), Vercelli (Arca – ex chiesa di San Marco) e Novara (Complesso Monumentale del Broletto – Sala dell’Arengo). L’intento, dichiarato dei curatori, è quello di voler fornire ai posteri una documentazione esaustiva dell’allestimento delle tre sedi museali dove le opere di Gaudenzio erano esposte. Le ricerche sulle esposizioni del passato, proprio per una mancanza di materiale adeguato, infatti, hanno dato più di qualche grattacapo agli esperti della materia, come ad esempio il libro di Patrizio Aiello sulla ricostruzione allestitiva delle sale di Palazzo Reale a Milano, dove nel 1951, è andata in scena la mostra curata da Roberto Longhi su Caravaggio. In altre parole, l’intento di Agosti e Stoppa è quello di storicizzare la loro propria esposizione preoccupandosi di fornire materiale adeguato per future ricerche sulla storia delle esposizioni, argomento oggi sempre più gettonato nelle ricerche per le tesi universitarie ma non solo.

Fig. 1. Copertina del libro Gaudenzio Memorial

Questa prima parte del libro è un poco polemica, poiché i due storici dell’arte si lamentano del fatto che la loro messa a punto della mostra su Gaudenzio e soprattutto il catalogo che ne è derivato (di oltre seicento pagine) non sono stati capiti da gran parte di coloro che quella mostra sono andati a vederla (stiamo parlando degli specialisti di settore ovviamente). Ebbene posso dire, senza polemica alcuna, che molto probabilmente non è che la loro messa a punto non è stata capita, ma più banalmente forse, non è piaciuta. È questo sta, a mio avviso, nell’ordine delle cose. Ma ritorniamo più oggettivi e andiamo per gradi.

Fig. 2. Copertina del catalogo della mostra Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari

La seconda parte del volumetto è costituita da un saggio di 22 pagine che si intitola Intorno a Gaudenzio. Vuol essere una sorta di arricchimento e di precisazioni nei confronti di tutti quegli argomenti ancora rimasti in fieri dopo la chiusura della mostra del 2018, e su cui è ricaduta l’ombra lunga delle ricerche dei due curatori e della loro equipe. Pur nella sua lunghezza contenuta, è un saggio “massacrante anche per il più indomito lettore”, fittissimo e pieno di rimandi in note bibliografiche (ma non solo), e di certo non è fatto per i principianti della materia. Sono tantissimi gli arricchimenti e gli aggiornamenti su argomenti gaudenziani e “para gaudenziani”. Essendo un grande appassionato di materiali gaudenziani proverò a citare i più salienti, ma certamente non ho lo spazio per citarli tutti.

Una precisazione del saggio riguarda il Dio padre al centro della controfacciata della chiesa prepositurale dei Santi Pietro e Paolo di Saronno. L’opera è stata attribuita a Gaudenzio Ferrari da Giovanni Romano, massimo esperto dell’artista, scomparso lo scorso dicembre; la tela si data al 1546 circa, fase finale della carriera del valsesiano. Nel saggio si è provato anche a dare forma più concreta ad alcuni collaboratori di Gaudenzio come Francesco Pessina che ha eseguito gli affreschi della parrocchiale di Borghetto Lodigiano, e che molto probabilmente ha dipinto, come sostengono i due storici dell’arte, anche il retro dell’ancona marmorea sull’altare maggiore di Sant’Eustorgio a Milano.

Fig. 3. Gaudenzio Ferrari, Dio Padre e Angeli, Saronno, Santi Pietro e Paolo, da Gaudenzio Memorial

Agosti e Stoppa hanno rintracciato anche diverse copie antiche dell’Andata al Calvario di Cristo di Cannobio come quella, ascrivibile ad un anonimo pittore gaudenziano, che sta in collezione privata a Torino, segnalata per primo da Giovanni Testori nel 1989 e che la dava a Gaudenzio in persona.

I due curatori puntano i riflettori anche sui Misteri del Rosario nella parrocchiale di Borghetto Lodigiano dove almeno quattro dei quindici episodi raffigurati fanno capo a composizioni di Gaudenzio. Sempre nel saggio si provano a rintracciare alcune copie dei numerosi ritratti che, a detta di guide antiche, sarebbero stati riferiti a Gaudenzio in persona, come ad esempio un Ritratto di Vittoria Colonna morta nel 1547 autentica madre spirituale di Alfonso D’Avalos, il governatore di Milano, che ebbe contatti con Gaudenzio in persona, oppure il ritratto perduto di Francesco II Sforza di cui si può avere un pallido riflesso dell’originale nella copia della Pentecoste che sta nella sacrestia del duomo di Vigevano.

Fig. 4. Anonimo gaudenziano, Andata di Cristo al Calvario, Torino, Collezione privata, da Gaudenzio Memorial

Altra importante novità è il ritrovamento (di cui si è già data notizia in un altro volume curato dagli stessi Agosti e Stoppa) di un altro frammento degli angioletti della predella del Matrimonio mistico di Santa Caterina del Duomo di Novara; stava fino a metà del Novecento in Cile, nella raccolta Edwards Gonzales, gli altri si trovano all’Accademia Carrara di Bergamo.

Ancora, è stata ritrovata una copia seicentesca del Compianto su Cristo morto ora a Budapest (e di cui non si è ancora riusciti a capire fino in fondo dove fosse la sua collocazione originaria), che sta nella canonica di Giaveno alle porte di Torino e già creduto di Defendente Ferrari, ma che Noemi Gabrielli diceva già essere una copia seicentesca.

Nel saggio si è provato a fare luce anche su alcune copie dello Sposalizio della Vergine e della Fuga in Egitto di Gaudenzio a Como. Al Louvre esiste infatti un disegno a olio su carta preparata in color bruno con una Fuga in Egitto che discende direttamente da quella di Como con una maggiore presenza di figure angeliche. Il foglio già creduto di Gaudenzio, è stato assegnato da Romano a Bernardino Lanino. Esiste un’altra versione della Fuga in Egitto, si tratta di un’opera di grande formato ma non di grande qualità, provvista di firma G. M. F. con la scritta Carlo Rivolta, dove fanno la loro comparsa centauri e animali selvatici. Queste derivazioni potrebbero gettare nuova luce sia sulla fortuna delle opere comasche di Gaudenzio, sia anche sui perduti cartoni di Gaudenzio per gli arazzi del Duomo di Milano.

Interessantissima è poi la parte che concerne la cosiddetta Pala degli aranci di San Cristoforo a Vercelli di cui esistono numerose copie e derivazioni soprattutto dei due angeli musicanti seduti in primo piano. Come dicono i due storici dell’arte “una delle repliche seicentesche da una di queste adorabili creature infantili fa coppia con una copia da un altro angelo musicante inequivocabilmente gaudenziano che probabilmente doveva far parte di un’altra composizione gaudenziana. Di questa altra composizione se ne ha un’idea da un foglio a penna e acquerello marrone del Kupferstichkabinet di Berlino, che Romano ha attribuito a Boniforte Oldoni, e che raffigura una pala d’altare con molte tangenze con la pala degli aranci”. Il disegno continuano i curatori, “non si accosta a nessuna delle pale vercellesi, sparite nel nulla, come quella per la chiesa della Trinità commissionata da Dorotea Avogadro di Valdengo nel 1528 o quella della cappella di Sant’Antonio in San Marco a Vercelli commissionata da Troilo Avogadro di Collobiano nel 1530, né si sa come doveva essere la pala di Gaudenzio già in San Lorenzo a Vercelli nel 1530 presa come punto di riferimento per la pala in San Marco”. Il foglio, e sono sempre Agosti e Stoppa a parlare, “sembra rimandare ad altre composizioni gaudenziane come quelle di Gerolamo Giovenone […] e di Bernardino Lanino come quella di Borgosesia. È soprattutto in questa ultima raffigurante la Madonna con il Bambino tra i Santi Gaudenzio, Pietro, Caterina d’Alessandria, Apollonia, Paolo e Giovanni Battista, che il disegno presenta parecchi punti di contatto, ma proprio la differente soluzione dell’angelo musicante ai piedi della Vergine, che la copia a colori su tela, da cui siamo partiti, fa supporre realizzato, porta a escludere il foglio di Berlino dal dossier relativo al capolavoro della giovinezza di lanino”. Questo stesso angioletto, fanno presente sempre Agosti e Stoppa, si trova identico nella pala del 1545 di Sebastiano Novelli della chiesa di San Pietro a Bosco Marengo. Questa tangenza lascia aperta l’ipotesi che la pala perduta, di cui dà testimonianza il foglio di Berlino, potrebbe avere avuto una originale collocazione casalese.

Fig. 5. Boniforte Oldoni, Madonna con il Bambino tra due Santi vescovi, San Pietro e San Paolo e due Sante, (da Gaudenzio Ferrari?), Berlino, Staatliche Museen Kupferstichkabinet, da Gaudenzio Memorial

Il saggio prosegue poi prendendo in analisi la fama del Gaudenzio milanese analizzando alcune opere di Ottaviano Cane. Oltre alla predella dello smembrato polittico di Santa Maria di Piazza a Casale Monferrato, eseguita dal pittore originario di Trino Vercellese, esiste una copia a mezza figura, già in una collezione privata di Parigi, della Santa Caterina d’Alessandria già in Sant’Angelo a Milano e ora a Brera, che testimonia i legami di Ottaviano Cane con Milano e con il Gaudenzio dell’ultima fase artistica.

Fig. 6. Ottaviano Cane, Santa Caterina d’Alessandria, già Parigi, collezione dell’abbé Thuélin, da Gaudenzio Memorial

Ancora il saggio si sofferma sulle due tavolette con Angeli adoranti di Gaudenzio rubate nel 1974 al Museo Civico di Novara a cui erano giunte per donazione nel 1890 di Giuseppe Morbio, e che dovevano trovare spazio in una perduta opera giovanile del valsesiano realizzata intorno agli anni del Polittico della Natività in San Gaudenzio a Novara (1514-1521), simile nell’impostazione a quella che compare sotto l’Andata al Calvario di Cannobio o all’Adorazione del Bambino oggi alla Cà d’oro di Venezia, opera di un anonimo pittore gaudenziano e di cui non si sa nulla in merito alla sua originaria provenienza; l’iconografia fa parte tuttavia di una composizione molto fortunata di cui però si ignora il prototipo.

Un’altra precisazione piuttosto interessante riguarda il polittico per il vecchio duomo di Vercelli, per il quale Gaudenzio realizza infatti una grandiosa macchina d’altare commissionata dalla famiglia degli Avogadro di Collobiano; alle testimonianze della fama di questa grandiosa opera si deve aggiungere una pala gaudenziana nella parrocchiale di Ghemme raffigurante la Madonna con il Bambino tra santa Caterina d’Alessandria e la Beata Panacea. La Vergine è ripresa alla lettera dalla Madonna con il Bambino oggi a Brera, mentre la Santa Caterina discende da quella a mezza figura oggi a Palazzo Madama. Chissà, si chiedono Agosti e Stoppa, se la Beata a destra non sia una derivazione da una delle due figure femminili dell’unico scomparto mancante del polittico che conteneva (come garantisce l’inventario sabaudo del 1635) le Sante Barbara e Lucia.

Fig. 7. Pittore gaudenziano, Madonna con il Bambino tra Santa Caterina d’Alessandria e la Beata Panacea, Ghemme, Santa Maria Assunta, foto di Marco Audisio

Concludo i punti salienti di questo, lo ripeto, densissimo saggio, citando il ritrovamento di un affresco datato 1654 nella chiesa della Madonna della Riva a Cervarolo, raffigurante la Vergine annunciata che richiama appunto la nota composizione di Gaudenzio con l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata eseguiti per la chiesa vecchia del Sacro Monte di Varallo. L’immagine di Cervarolo della Vergine, e cito ancora del saggio dei due storici dell’arte, conferma quanto si avvertiva nelle tele in San Gottardo a Borgomanero (rintracciate dal sottoscritto e che non sono poi così brutte come ne dicono i due studiosi. L’Angelo annunciante di Borgomanero è l’immagine di copertina di questa recensione anche se non compare nel libro. Quella di Cervarolo è invece una replica decisamente brutta), risolutive per la ricostruzione dell’inginocchiatoio nella camera di Maria. Grazie ai dipinti della Madonna di Riva, sottolineano i due studiosi, si può aggiungere che, con ogni probabilità, anche il pavimento della tavola con la Vergine doveva essere fatto con mattonelle in prospettiva, e non è da escludere che l’originale (che al momento manca ancora all’appello), presentasse un tendaggio in alto a destra come lo stesso Gaudenzio aveva adoperato nei coevi polittici di San Gaudenzio a Novara e di San Gaudenzio a Varallo e negli affreschi all’interno della Madonna di Loreto a Roccapietra. Non è inverosimile pensare che appartenesse al prototipo originale anche il cestino da lavoro in basso a sinistra, particolare che era già comparso nell’Annunciazione del tramezzo di Santa Maria delle Grazie a Varallo. Solo un’analisi puntuale e sistematica delle varie copie, auspicano i curatori, permetterà di capire se nell’originale al Sacro Monte ci fossero sul leggio le candele presenti nella tela di Borgomanero e compatibili con la raffigurazione dell’episodio, a stare all’occorrenza della scena nel tramezzo di Santa Maria delle Grazie.

Fig. 8. Pittore valsesiano del 1654, Vergine annunciata, Cervarolo, Villa Inferiore, Madonna della Riva, da Gaudenzio Memorial

La terza e ultima parte del volumetto è un saggio di una trentina di pagine, anch’esso densissimo di informazioni e dai numerosissimi rimandi bibliografici in nota che si intitola Nel clan di Tanzio. In questa ultima parte, che per mancanza di spazio non posso sviscerare come vorrei, Agosti e Stoppa riflettono sul problema critico del pittore e plasticatore Melchiorre d’Enrico (che Testori definiva il meno dotato dei fratelli D’Enrico), fratello maggiore di Tanzio da Varallo e molto probabilmente maestro di quest’ultimo e dell’altro fratello plasticatore Giovanni. Il saggio inizia con una chiarificazione riguardo alla confusione che si è fatta sulla famiglia di questi artisti valsesiani a cominciare dallo sdoppiamento dei due rami della famiglia dei D’Enrico che si ritenevano originari entrambi di Alagna (ricostruzione biografica del 1995 di Alessandra Cesa). Questo sdoppiamento ha portato a riconoscere due famiglie di artisti entrambe composte da pittori, scultori e architetti quasi coetanei e con gli stessi nomi. Già nell’Ottocento si era diffusa l’idea dell’esistenza di un Melchiorre il vecchio e di un Melchiorre il giovane rispettivamente zio e nipote. In realtà, come spiegano gli autori e alle cui complicate pagine rimando, questo sdoppiamento non ha motivo di esistere. Tutta questa vicenda nasce da una lettura erronea delle carte d’archivio. Ci sarebbe quindi una e una sola famiglia d’Enrico, i cui componenti, fra cui lo stesso Melchiorre, protagonista del saggio, tendeva a firmarsi in modi diversi. Da qui l’erronea convinzione dello sdoppiamento dei due artisti e delle due famiglie.

Il saggio prosegue con la ricostruzione dei viaggi, degli spostamenti e delle opere, tramite la rilettura dei documenti e la scoperta di alcune carte inedite, del percorso artistico di Melchiorre. Tra le opere che gli si possono assegnare ci sono ad esempio il grande Giudizio Universale sulla facciata della parrocchiale di Riva Valdobbia (1596-1597); parte dell’esecuzione delle statue (1609 circa) della cappella dell’Ecce Homo (33) e la Cappella dei Discepoli dormienti (pagato una prima volta per le statue il 7 ottobre 1610 e una seconda volta il 7 dicembre 1612 per le pitture) del Sacro Monte di Varallo. Nello stesso 1612 Melchiorre firma la pala già in San Pantaleone a Varallo e ora in collezione privata raffigurante la Madonna con il Bambino tra San Pantaleone con un donatore, Santa Caterina d’Alessandria e Santa Marta; anche in questo caso, la pala è impregnata di riferimenti a Gaudenzio. In particolare la Madonna e il Bambino sono ripresi dalla tavola oggi a Brera ma un tempo facente parte del polittico Avogadro di Collobiano dell’antico duomo di Vercelli. Sempre di Melchiorre è l’Annunciazione della Pinacoteca di Varallo, un tempo nella chiesa di San Carlo firmata e datata 1613. Anche in questo caso l’iconografia della tela è ripresa da quella di medesimo soggetto (ora alla Gemaldegalerie di Berlino) dipinta da Gaudenzio per il polittico Avogadro di Collobiano di Vercelli.

Fig. 9. Melchiorre d’Enrico, Annunciazione, Varallo Sesia, Pinacoteca Civica, foto di Marco Audisio

Al 1614 risale invece la tela con la Madonna con il Bambino tra i Santi Fabiano, Defendente e Pietro, ora nella parrocchiale di Rossa, ma un tempo nell’oratorio dei Santi Fabiano e Sebastiano a Folecchio. Nel 1617 Melchiorre collabora con il fratello Tanzio alla decorazione della Cappella della Prima presentazione di Cristo a Pilato. Dallo spoglio dei documenti è inoltre emerso che le statue dei due pastori nella Cappella dell’Adorazione dei Pastori, la numero 7, del Sacro Monte di Varallo, insieme ai quattro angioletti musicanti che sovrastano la mangiatoia e il cartiglio con il Gloria in excelsis deo, sono da riferire a Melchiorre D’Enrico. Giovanni Testori pensava che fossero opera dello stesso Gaudenzio, forse per il loro sapore ancora manierista, tanto che proprio i due pastori compaiono nella copertina e nella quarta di copertina della prima edizione del Gran Teatro Montano di Testori, pubblicato per la casa editrice Feltrinelli. Fino a poco tempo fa, la critica credeva invece che le stature fossero del ben più dotato fratello di Melchiorre, Giovanni D’Enrico. Questo dovrebbe a tutti gli effetti riabilitare le doti artistiche di Melchiorre che Testori definiva il meno dotato dei fratelli D’Enrico. Al 1617 risalgono i pagamenti a Melchiorre per gli affreschi della Cappella della Cattura di Cristo (23). È messa in discussione invece la paternità di Melchiorre della pala in San Gaudenzio a Varallo con San Gregorio tra San Nicola da Bari e San Pantaleone, che pure sembra rivelare più di qualche tangenza con lo stile dell’artista. Nel 1633 Melchiorre porta a termine la decorazione della Cappella di patronato Gibellino nella parrocchiale di Borgosesia, già iniziata dal fratello Tanzio. Melchiorre si trova a concludere la lunetta affrescata con San Francesco tra i rovi, dove gli spetta la sola figura del grande diavolo sulla destra; mentre esegue per intero la lunetta con San Francesco che abbraccia San Domenico. Il 12 giugno 1640, Melchiorre vende un mulino di sua proprietà al pittore Giovanni Antonio Rocca; questo è il pretesto per i due storici dell’arte per parlare, all’interno dello stesso saggio, del corpus delle opere (Agosti e Stoppa ne hanno rintracciate una decina) di questo interessante pittore, cresciuto molto verosimilmente all’interno, o meglio, a lato del clan di Tanzio da Varallo, come i richiami alle opere di quest’ultimo nei dipinti del Rocca farebbero proprio pensare. Melchiorre muore nel corso del 1642, sicuramente prima del 5 settembre quando risultano pagate messe in onore della sua anima.

Fig. 10. Giovanni Antonio Rocca, Annunciazione, Varallo Sesia, Pinacoteca Civica, foto di Marco Audisio

Terminano questo volume le note ai due saggi (ben 223), l’estesa bibliografia (di ben 12 pagine) e naturalmente l’indice dei nomi che in un libro come questo non poteva mancare. Seppur contenuto nel numero di pagine, questo libercolo non manca di rivelare il metodo (di “triturante filologia”, sono parole che Testori usò per definire la mostra su Bernardino Lanino curata da Giovanni Romano) ormai consolidato dei due storici dell’arte e della loro, ormai anch’essa più che collaudata, equipe di giovani e meno giovani storici dell’arte al loro seguito. Sicuramente non è un libro che suggerirei a chi si approccia a questi argomenti per la prima volta, anzi, tenderei a sconsigliarlo, tuttavia per gli specialisti questo piccolo strumento di lavoro è assolutamente ineccepibile, sia dal punto di vista scientifico che dal punto di vista grafico. Unica pecca, forse, il non aver messo alcune immagini a cui si fa riferimento nel testo, specie per quanto riguarda il primo dei due saggi. Data l’estrema specificità e difficoltà nel poter vedere numerose delle opere citate da Agosti e Stoppa, forse sarebbe stato il caso di metterle nel testo, magari anche con qualche particolare in più rispetto a quanto è stato fatto. Tale scelta, ovviamente, avrebbe fatto aumentare il numero di pagine e quasi sicuramente il costo del libro al pubblico, ma avrebbe reso il volume decisamente meno ostico al pubblico, anche degli specialisti.

Marco Audisio

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