Dipingere la luce. L’en plein air e la pittura di paesaggio

Risale al periodo compreso fra Settecento e Ottocento l’emergere, in concomitanza con l’affermarsi della pittura di paesaggio come genere dotato di una propria identità, di una nuova, cruciale questione: l’individuazione di una tecnica pittorica, che riuscisse a restituire nel modo più esatto possibile i reali meccanismi della percezione visiva della realtà.
Proprio a questa nuova esigenza si deve l’affermarsi della pittura en plein air come tecnica compiuta e non più come strumento per “fermare”, attraverso uno schizzo o un bozzetto, un particolare momento da rielaborare in seguito, in studio.

Fig. 1 Pierre-Henri de Valenciennes, Paesaggio classico con figure e statua, 1788, Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

Già dagli albori dell’Ottocento gli artisti che praticavano pittura di paesaggio si erano confrontati con questa problematica e avevano cercato di ovviarvi attraverso le soluzioni più disparate: tuttavia, nessuna di esse prevedeva lo sviluppo del dipinto “in presa diretta”, quanto, piuttosto, la memorizzazione o l’annotazione dei diversi colori che componevano la scena, per procedere a un’elaborazione successiva, in atelier. Uno dei precursori di questo genere era stato l’artista e teorico Pierre-Henri de Valenciennes (Tolosa 1750 – Parigi 1819), il quale, seppur ancora legato ad un’idea accademica di paesaggio, che prevedeva, cioè, l’inserimento di scene tratte dalla storia, dalla mitologia o che contenessero comunque un richiamo alla classicità in grandi scenari naturali, aveva introdotto un nuovo modo di operare, che consisteva nel dipingere lo stesso scorcio di paesaggio in diversi momenti della giornata, per cogliere il variare dei colori e dell’atmosfera dovuto al variare della luce. La difficoltà principale, come è noto, riguardava proprio la resa degli effetti luministici: i diversi passaggi di realizzazione dei dipinti che venivano insegnati nelle accademie erano infatti troppo lenti e laboriosi per coglierne i mutamenti dal vivo ed erano comunque pensati per essere eseguiti alla luce artificiale e fissa degli atelier.
È nel solco di questi dibattiti che, sempre fra XVIII e XIX secolo, l’acquerello si afferma come tecnica autonoma e non più come strumento accessorio. Ciò avviene, innanzitutto, fra gli inglesi di scuola romantica, come John Robert Cozens (Londra 1752 – 1797), celebre per i suoi paesaggi alpini, il cui esempio sarà determinante per il successivo affermarsi di due dei maggiori artisti britannici del primo Ottocento, Joseph Mallord William Turner (Londra, 1775 – Chelsea,1851) e John Constable (East Bergholt, 1776 – Londra, 1837).

Fig. 2 Joseph Mallord William Turner, Venezia, la foce del Canal Grande, 1840 circa, New Heaven, Yale Center for British Art (fonte: William Turner – Wikipedia).

Di Turner, che, oltre a lavorare nella città natale, Londra, si sposta in Francia, Belgio, Olanda e Italia, è emblematica una serie di acquerelli che ritraggono la laguna veneta: i colori diluiti e sfumati rendono l’aria quasi palpabile e appaiono estremamente “mobili”, rendendo ben visibile il movimento delle nubi e della luce, in base al variare dei fenomeni atmosferici. Si afferma, nel Turner maturo, una diversa concezione della missione della pittura, svincolata dal rigore della forma e del disegno e lontana dalle più tradizionali prove eseguite in ambito accademico, del quale fu tuttavia una vera e propria autorità, arrivando a ricoprire, nel 1845, la carica di presidente della Royal Academy.
Proseguendo nel corso dell’Ottocento, le sperimentazioni di Turner e, soprattutto, di Constable trovano terreno fertile in Francia, in particolar modo fra quel gruppo di artisti che, a partire dagli anni Trenta, si stabilisce nei pressi della Foresta di Fontainebleu, dando vita alla Scuola di Barbizon. Seppur differenti nel loro modo di approcciarsi alla pratica artistica e per lo più legati ad un’idea ancora tradizionale della pittura di paesaggio – come lo era Jean-Baptiste Camille Corot (Parigi, 1796 – 1875), considerato il precursore della Scuola, nonché uno dei maggiori paesaggisti francesi – gli artisti di Barbizon sono accomunati da una notevole inclinazione verso la natura e dalla sempre maggiore dignità conferita ai bozzetti e agli schizzi eseguiti all’aperto, sebbene il “passaggio” finale in atelier rimanga un presupposto imprescindibile.

Fig. 3 Charles-François Daubigny, Prato al tramonto, Lipsia, Museo di Belle Arti (fonte: File:Leipzig, Museum der bildenden Künste, Charles-Francois-Charles-François Daubigny, Obstwiese.JPG – Wikimedia Commons).

Fra di essi, il maggiore sperimentatore, non a caso considerato artista di snodo fra il romanticismo e lo sviluppo dell’impressionismo, è Charles-François Daubigny (Parigi, 1817 – Parigi, 1878): la resa finale della superficie pittorica, ottenuta mediante pennellate rapide e materiche, i contorni sfumati e l’attenzione alla resa dei riverberi luminosi sono le caratteristiche salienti della produzione di questo artista, che faticherà a trovare piena comprensione fra i contemporanei, ancora legati e abituati ad esiti pittorici più tradizionali e elaborati.
Sulle vicende artistiche delineate fino ad ora e, soprattutto, sull’esperienza della Scuola di Barbizon si innesta, come è noto, la fondamentale stagione impressionista e, in particolare, l’opera di Claude Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926), per il quale la pratica en plein air arriva a ricoprire un ruolo determinante. Nelle opere dell’artista, in particolare, confluiscono non solo i rilevanti risultati dei predecessori francesi, ma anche le innovazioni introdotte oltremanica da Constable e Turner, artisti ammirati di persona in occasione del soggiorno a Londra del 1870.
Prima dell’esperienza britannica, Monet aveva già messo a punto, insieme a Renoir (Limoges, 1841 – Cagnes-sur-Mer, 1919), i fondamenti della nuova tecnica che sarebbe stata appunto definita impressionista, attraverso la quale l’esordiente generazione di artisti auspicava di trovare una soluzione all’annosa questione della rappresentazione della realtà. Tale dibattito, tuttavia, iniziava ad assumere dei contorni nuovi: alla luce delle recenti scoperte nel campo dell’ottica, l’obiettivo era divenuto quello di cercare di riprodurre la fusione della percezione dei colori e della rifrazione della luce, secondo gli stessi meccanismi che regolano l’occhio umano.

Fig. 4 Claude Monet, Saggio di pittura en plein air, 1886, Parigi, Musée d’Orsay (fonte: wikipedia).

Ciò comportava una serie di risvolti: innanzitutto, in base a questo nuovo modo di approcciarsi allo studio dell’osservazione della realtà, trovava conferma il fatto che gli oggetti vengono recepiti come un giustapporsi di colori che si influenzano a vicenda, in base all’intensità della luce e delle zone d’ombra. Decadeva quindi definitivamente la convenzionale rappresentazione pittorica del mondo dai contorni ben definiti e, di conseguenza, veniva spodestata la secolare pratica del disegno. Questo, unitamente alla nuova attenzione riservata al modo di rappresentare la realtà e non ai soggetti, che sempre più spesso appartenevano alla quotidianità ed erano privi di rilevanza storica o religiosa, confermava la rottura con la tradizione accademica.
Questo nuovo corso assunto dalla pittura, soprattutto di paesaggio, si rintraccia in numerose e note opere di Monet, ma c’è una coppia di dipinti, in particolare, che potrebbe essere quasi considerata un manifesto: si tratta del dittico Saggio di figura en plein air, costituito da due olii su tela assai simili, entrambi raffiguranti una figura femminile che, ritratta dal basso verso l’alto e rivolta verso differenti direzioni, si staglia contro un cielo primaverile.
Appare evidente sin dal primo sguardo come l’intento di Monet non fosse quello di realizzare un vero e proprio ritratto femminile e di concentrarsi, quindi, sull’identità della figura principale: i due dipinti denotano infatti uno scarso interesse per i dettagli e il volto della donna è appena abbozzato, i suoi tratti somatici resi irriconoscibili.
Tale soggetto offriva piuttosto più di un pretesto per sperimentare la nuova tecnica: lo scenario assolato e, di contro, l’ombra gettata dal parasole consentivano innanzitutto di esercitarsi sulla resa dei più disparati effetti luministici. Coerentemente con quanto già sperimentato, il chiaroscuro è reso mediante ombre colorate, che restituiscono visivamente il reciproco influenzarsi dei colori. Anche l’abito della donna, ad esempio, seppur conservando il proprio colore originale, il bianco, non è perfettamente candido: assorbe infatti le diverse gradazioni che vi riverberano, dal tenue verde filtrato dal parasole all’azzurro-grigio dello scialle.
L’artista ricorre inoltre ad altri espedienti giù utilizzati, come quello di dipingere l’opera direttamente attraverso il solo uso di colori puri, senza disegno o preparazione di base, e di inserire leggere tacche di toni complementari, per esaltare la luminosità: in entrambi i dipinti, ad esempio, il prato presenta tracce di rosa e viola.

Fig. 5 “Claude Monet, Rouen Cathedral, West Façade, Sunlight, 1894, oil on canvas, overall: 100.1 x 65.8 cm (39 3/8 x 25 7/8 in.) framed: 127.6 x 91.4 cm (50 1/4 x 36 in.), Chester Dale Collection, 1963.10.179”

Questo modo di procedere, al quale Monet si attiene sostanzialmente per tutto il corso della sua carriera, si intensifica a partire dagli anni Ottanta, quando l’artista, ormai affermato e professionalmente maturo, intraprende un nuovo percorso, quello della pittura in serie: nascono così le sequenze dei Pioppi, dei Covoni, quella dedicata alla Cattedrale di Rouen e le celeberrime Ninfee, che l’artista inizia ad elaborare nel 1883, in seguito al trasferimento a Giverny.
Grazie al constante lavoro di pittura en plein air, Monet realizza decine di tele raffiguranti lo stesso soggetto colto in diverse stagioni dell’anno o in differenti momenti della giornata, a seconda dell’effetto luministico che intende ricreare. L’obiettivo è quello di dimostrare, in via sperimentale e mediante un’incessante ricerca, come uno stesso scenario appaia in modo differente in base al mutare della luce e delle condizioni atmosferiche, mantenendo il punto di vista e i mezzi tecnici pressoché invariati.
Mentre Monet deciderà di proseguire su questa linea ben oltre l’inizio del nuovo secolo – è del 1920 la decisione di offrire allo stato francese le grandi Ninfee conservate al Museo dell’Orangerie – già degli anni Ottanta dell’Ottocento il panorama artistico comincia a cambiare e a volgersi verso nuove consapevolezze. Nel 1886 ha luogo a Parigi l’ultima esposizione impressionista, organizzata da Paul Signac, che vi partecipa tuttavia in qualità di esponente, insieme ad altri, della nuova tecnica del puntinismo; l’esposizione sancisce proprio l’affermarsi di questo movimento che, pur affondando le radici nell’esperienza impressionista, determina la svolta verso un nuovo modo di intendere la pittura, che già prelude agli sviluppi del Novecento. L’en plein air viene superato in favore di un ritorno negli atelier, luoghi nei quali gli artisti si dedicano all’applicazione delle più recenti scoperte di ottica: ciò che gli impressionisti aveva sino a quel momento applicato in modo sperimentale si veste ora di una precisa connotazione scientifica.
Le vicende successive sono note: dalla Francia, il puntinismo si diffonderà nel resto dell’Europa convergendo nel più ampio movimento postimpressionista, che assumerà forme e nomi diversi. Sempre più spesso la pittura diventerà un mezzo per esplorare non più la realtà nel suo modo di manifestarsi empiricamente, ma, soprattutto, per tradurre in immagini i complicati meandri dell’interiorità; oppure, come nel caso dell’Italia, il dato visivo si unirà a suggestioni letterarie e simboliche, aprendo la strada al simbolismo e favorendo il passaggio verso la modernità.

Chiara Franchi

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