Quando si pensa alla genesi della letteratura moderna e, in particolare, del romanzo, solitamente le associazioni più immediate sono con l’Europa del diciottesimo secolo, con l’ascesa della classe borghese e con autori quali Jonathan Swift, Voltaire o Goethe, solo per citarne alcuni; difficile immaginare di estendersi oltre tali confini, sia geografici che temporali.
Eppure, esiste un’opera che vide la luce in un’epoca più remota e in un contesto culturale e sociale assai distante, che è considerata oggi fra i primissimi esempi di narrativa moderna: stiamo parlando del Genji monogatari, il Racconto di Genji, capolavoro della letteratura giapponese, scritto intorno all’anno 1000 da Murasaki Shikibu (pseudonimo di To no Shikibu; 973 circa – 1014 circa), una dama vissuta presso la corte imperiale di Heian.
Murasaki, il cui soprannome deriva da una delle protagoniste del racconto, è annoverata fra i massimi esponenti della letteratura nipponica di tutti i tempi; di lei sono giunti sino a noi anche il Diario di Murasaki Shikibu (1008-1010) e una raccolta di poesie. L’opera cardine della sua produzione è tuttavia il Racconto di Genji: delle differenti versioni tramandate nei secoli, la più antica è quella riportata nel Genji monogatari emaki, il Rotolo illustrato del racconto di Genji, realizzato circa un secolo dopo la stesura originaria.
Si tratta, come suggerisce il titolo, di un rotolo – uno dei formati giapponesi tipicamente riservati alle opere letterarie e pittoriche – nel quale il testo del romanzo è alternato a una serie di splendide illustrazioni. L’opera è però giunta sino a noi in modo parziale e rimangono oggi solo venti delle oltre cento scene dipinte presenti in origine, pubblicate integralmente nel volume di Gian Carlo Calza Genji, il principe splendente (2008, Electa).
Seppur incomplete, sia le tavole scritte che le illustrazioni rendono perfettamente l’idea del contesto nel quale nacque, si sviluppò ed è ambientato il Genji monogatari: ci troviamo nel pieno dell’Epoca Heian, il periodo della storia giapponese che trae il proprio nome dalla città – l’attuale Kyoto – scelta nel 794 come sede del Palazzo imperiale e che fu capitale sino al 1869.
Tale arco di tempo (794-1185) è ricordato come il periodo di massimo splendore della cultura nipponica: la capitale stessa era considerata il simbolo per antonomasia di eleganza, bellezza e tradizione e ciò trovava riscontro anche all’interno del Palazzo imperiale, dove ogni momento della vita degli abitanti, anche il più apparentemente banale, era in realtà regolato da gesti ritualizzati e raffinate convenzioni non scritte. Le stesse vicende della vita di Genji, il protagonista dell’opera, uno dei figli dell’Imperatore, sebbene filtrate dalla fantasia dell’autrice, sono in parte ispirate a quanto accadeva realmente nelle sale del Palazzo: il genere del romanzo, così come quello diaristico, assai in voga fra le dame di corte, era infatti praticato per lo svago dei soli abitanti della sede imperiale, che avevano così modo di riconoscersi e immedesimarsi in situazioni o personaggi, anche grazie all’attenzione all’introspezione psicologica.

L’importanza conferita all’aspetto estetico dell’esistenza si percepisce sin dall’osservazione delle tavole scritte: su fogli di carta di altissima qualità, impreziositi da decorazioni floreali e inserti in foglia d’oro e d’argento, scorrono infatti linee fluide, il cui spessore è sapientemente modulato in base al tipo di effetto che si intende ricreare. Si tratta della grafia cosiddetta “a caratteri d’erba”, considerata più femminile e delicata e per questo utilizzata prettamente per la narrativa o i diari, non solo con il mero scopo di trascrivere i testi, ma anche perché consistente essa stessa in un gesto artistico. I caratteri appartengono al sillabario giapponese, derivato dalla semplificazione degli ideogrammi cinesi, all’epoca più diffusi, che trovò proprio grazie al Genji monogatari la propria consacrazione come lingua autoctona.
La tecnica pittorica utilizzata nelle illustrazioni è la cosiddetta tsukurie, letteralmente “pittura costruita”, in base alla quale le figure venivano in un primo momento abbozzate direttamente sul foglio e poi riempite con colori stesi a campiture piatte e omogenee; l’ultimo passaggio prevedeva la definizione dei dettagli, utilizzando un pennellino intinto in inchiostro nero. Sebbene gli autori dei dipinti siano sconosciuti, gli studiosi vi hanno rintracciato le mani di quattro differenti gruppi di artisti.
Le venti scene giunte sino a noi non costituiscono solo un’attestazione di quello che era il gusto artistico dell’epoca, ma permettono di immergersi nell’atmosfera che doveva caratterizzare la vita all’interno del Palazzo imperiale e offrono agli osservatori una panoramica sui suoi ambienti più tipici, sugli elementi di arredo e sulla moda dominante, dagli abiti sino alle acconciature.

Per permettere di visualizzare l’interno degli spazi chiusi, gli artisti ricorrono alla tecnica del “tetto soffiato via”, espediente che permette di affacciarsi dall’alto sulle sale e vedere cosa sta accadendo al loro interno, anche in più ambienti confinanti.
È il caso dell’illustrazione intitolata Il vischio (capitolo 49): probabilmente ambientata in una delle sale d’onore del Palazzo, essa raffigura una partita a go, un gioco da tavolo di origine cinese, fra un personaggio di nome Kaoru e l’Imperatore. Due dame, al di là di un tramezzo di carta, elemento tipicamente utilizzato negli interni per definire e separare gli spazi, osservano la scena.
L’ambiente è accuratamente costruito e da esso traspare una precisa idea di quello che doveva essere l’arredamento tipico di questo genere di locali: nella sala in cui si trovano i due uomini, ad esempio, è possibile scorgere un pannello decorato a fiori e uccelli appeso alla parete di fondo, un basso mobile e un tavolo laccato di nero. Nella stanza adiacente si scorge invece uno scaffale, anch’esso di colore scuro, alto quasi quanto la parete, contenente oggetti descritti con esattezza, fra i quali si scorgono alcuni rotoli.

Un’altra peculiarità di questo stile pittorico riguarda il modo di definire le figure umane: i volti dei personaggi, sia maschili che femminili, sono infatti identici fra loro e dipinti con pochissime linee nette; non appaiono mai raffigurati frontalmente, ma quasi sempre di tre quarti o, più raramente, di profilo. La differente caratterizzazione è piuttosto resa mediante la diversificazione delle vesti e delle acconciature, mentre il compito di trasmettere pensieri e stati d’animo è affidato alla gestualità del corpo, raffigurato nelle pose più disparate.

Alcune illustrazioni, come Il fiume dei bambù (capitolo 44), indagano le caratteristiche architettoniche del Palazzo. Da esse si evince come le strutture che lo componevano erano prevalentemente lignee, ariose e caratterizzate da numerosi spazi aperti. Nel caso della scena in questione, l’ambientazione consiste in una sorta di balconata che si affaccia su un piccolo giardino, al centro del quale campeggia un ciliegio in fiore. La continuità fra lo spazio esterno e l’interno, uno dei principi cardine dell’architettura giapponese del periodo, è garantita dai tendaggi sollevati, mentre l’integrazione con la vegetazione è accentuata dai materiali e dai toni naturali degli elementi. Vi è un netto contrasto con la ricchezza delle ampie vesti indossati dalle dame, fra le quali si intravede di nuovo la scacchiera del go.

Per quanto riguarda invece la pittura di esterni, non disponiamo purtroppo di molte testimonianze: l’illustrazione Incontro alla frontiera (capitolo 16) è l’unica scena di paesaggio del Racconto di Genji giunta sino a noi. Essa è ambientata presso il lago Biwa, il cui specchio è visibile in alto a sinistra; il primo piano è invece dominato da una serie di colline di un verde acceso, che contrastano con il fondo dai toni terrosi e neutri, dovuti al deperimento dei colori più accesi che dovevano caratterizzare il dipinto in origine.

Dal momento che il romanzo è incentrato sulla vita a corte, i suoi numerosi cerimoniali e le note di costume e assumono un rilievo assai significativo. Nella tavola La casa a oriente (capitolo 50), ad esempio, assistiamo al rituale del lavaggio e dell’acconciatura della lunghissima chioma di una dama, da parte di un’ancella: la moda aristocratica del tempo prevedeva che i capelli dovessero crescere il più a lungo possibile. Per quanto riguarda l’abbigliamento, invece, l’usanza prescriveva di indossare molteplici strati di vesti di seta e infatti, anche in questo caso, notiamo la ricchezza e le imponenti dimensioni degli abiti indossati dalle figure, sontuosi ma, allo stesso tempo, ingombranti.
Il passatempo al quale sono intente dame e ancelle, questa volta, non è un gioco di società, ma la lettura: la fanciulla di spalle, infatti, ha aperto innanzi a sé un libro, del quale si distinguono i caratteri, mentre un secondo volume, retto dalla ragazza a fianco, contiene probabilmente delle illustrazioni. La sala è separata in due aree da una sorta di paravento dipinto con un motivo naturale, similmente alle porte scorrevoli parzialmente aperte.
Da questa e dalle altre illustrazioni del Genji monogatari emaki, nonché dalle pagine del racconto, emerge l’importanza di quest’opera, che seppe sapientemente immortalare il panorama culturale, le tradizioni e i costumi di un’epoca storica per lo sviluppo del Giappone. Durante i decenni del periodo Heian, infatti, il Paese del Sol Levante, distaccatosi dai persistenti influssi cinesi, gettò le basi della propria identità e diede vita a quell’immaginario unico che si è tramandato sino ad oggi. Murasaki e le altre dame attive alla corte imperiale, inoltre, attraverso la propria produzione letteraria – che costituiva gran parte delle opere di narrativa – determinarono la diffusione dei nuovi caratteri giapponesi e la nascita di un linguaggio autoctono che, insieme al nuovo stile pittorico delle illustrazioni che accompagnavano i testi, contribuì alla definizione della cultura nazionale nipponica.
Tutte le foto utilizzate in questo articolo sono tratte da Wikipedia.
Chiara Franchi
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