I “Ruggenti anni Venti” fra mito e modernità

É passato ormai un secolo da quando, agli inizi del Novecento, si apriva una decade destinata a rimanere nella memoria collettiva come uno dei momenti più iconici della storia contemporanea: stiamo parlano dei cosiddetti Roaring Twenties, i “Ruggenti anni Venti”, ai quali il Museo Guggenheim di Bilbao ha dedicato una grande mostra, inaugurata lo scorso 7 maggio e curata da Cathérine Hug e Petra Joos.   
L’esposizione, che si intitola appunto “Los locos Años Veinte”, mira a ricreare, attraverso più di 300 oggetti appartenenti a tutte le discipline artistiche, il clima unico che caratterizzò l’Europa, soprattutto le sue grandi città, nel corso di questi dieci anni e, in particolare, gli importanti cambiamenti che interessarono non solo il panorama culturale, ma anche la società. Il risultato di questa ricerca è un percorso espositivo che prende in considerazione gli ambiti che risentirono maggiormente delle novità apportate da questo nuovo corso e cerca di dimostrare l’attualità di molte delle innovazioni introdotte in quel periodo.         
Prendendo spunto da questa interessante impostazione abbiamo deciso di soffermarci a nostra volta su alcuni dei grandi temi di dibattito che animarono gli anni Venti: si tratta di discussioni sorte intorno a nuovi modelli di vita e punti di vista innovativi, che ebbero una notevole ripercussione anche sul mondo dell’arte e che hanno condizionato in modo duraturo la mentalità e la cultura occidentali.

Fig. 1 – Fernand Léger, Composizione in blu, 1921-27, Chicago, Art Istitute.


La mostra di Bilbao prende le mosse da quell’atmosfera unica e, per certi versi contraddittoria, che si respirava agli albori degli anni Venti: se da un lato, infatti, l’Europa si trovava a fare i conti con la recente e traumatica esperienza della Grande Guerra, dall’altro iniziava a diffondersi e a fare presa un grande desiderio di innovazione, sorto in realtà già prima dell’inizio del conflitto.      
A suscitare entusiasmo erano soprattutto gli ultimi sviluppi tecnologici, che – anche sulla scia dell’accelerazione imposta dalle esigenze belliche – avevano portato con sé significativi cambiamenti negli stili di vita, soprattutto nelle grandi città. La diffusione dell’illuminazione elettrica e i progressi nel settore dei trasporti, ad esempio, avevano contribuito a modificare gli scenari metropolitani; i nuovi strumenti introdotti a livello industriale avevano invece determinato la nascita di una nuova fascinazione nei confronti della macchina, considerata sinonimo di progresso, che aveva finito per coinvolgere anche diversi artisti, ideatori di inediti modelli iconografici.        
Il francese Fernand Léger (Argentan, 1881 – Gif-sur-Yvette, 1955), ad esempio, fu uno dei massimi esponenti di questa nuova estetica meccanizzata. Dopo aver esordito come cubista, al fianco di Picasso e Braque, l’artista aveva infatti inaugurato un nuovo tipo di ricerca, volta alla celebrazione di motori, ingranaggi ed elementi meccanici, che venivano esaltati non tanto per il loro lato funzionale, ma soprattutto per le qualità formali e cromatiche. Questo nuovo sguardo trasformava tali strumenti, apparentemente distanti da una qualsiasi interpretazione artistica, in una giustapposizione di elementi geometrici e bidimensionali, in perfetto equilibrio fra loro.

Fig. 2 – Otto Dix, Ritratto della giornalista Sylvia von Harden, 1926, Parigi, Musée National d’Art Moderne – Centre Pompidou.

Non erano, tuttavia, solo la tecnologia e l’industrializzazione ad essere osservate da una nuova prospettiva. Durante gli anni della guerra, con la maggior parte degli uomini impegnata al fronte, era sorta una nuova consapevolezza nei confronti delle potenzialità delle donne, che avevano, per la prima volta, avuto la possibilità di ricoprire all’interno della società ruoli di maggiore rilievo, anche in ambiti che erano stati sino a quel momento di appannaggio maschile.      
Questi nuovi stimoli si concretizzarono innanzitutto in una serie di importanti manifestazioni politiche e sociali per una maggiore emancipazione, ma determinarono interessanti cambiamenti anche nella moda e, più in generale, nel costume e nelle abitudini femminili dell’epoca, improntate a una maggiore desiderio di libertà. Una sorta di manifesto di questa ulteriore – seppure più mondana – “rivoluzione” è il celebre Ritratto della giornalista Sylvia von Harden, eseguito nel 1926 dall’artista tedesco Otto Dix (Gera, 1891 – Singen, 1969).   
La protagonista del dipinto, ritratta mentre siede ad un tavolino, probabilmente in un bar, sembra essere una vera e propria concretizzazione di tutto ciò che era più in voga in quel periodo; lo suggeriscono il suo aspetto vagamente androgino, accentuato dal diffuso taglio di capelli à la garçonne, ma anche l’abito sopra il ginocchio, la sigaretta, il rossetto scuro, il cocktail posato di fronte a lei: lo stesso Otto Dix considerava questo suo dipinto non solo un semplice ritratto femminile, ma la rappresentazione di un’intera epoca.           
L’artista tedesco era uno dei massimi esponenti della Nuova Oggettività, una corrente che mirava ad indagare la società contemporanea, denunciandone gli aspetti più controversi con ironia e, soprattutto – come suggerisce il nome dato al movimento – con estremo realismo, anche se non mancavano accenti più espressionistici. Questo movimento era sorto durante quello che era, per la Germania, un momento di grandi fermenti culturali, alla cui vivacità aveva dato un decisivo impulso la costituzione, nel 1919, della Repubblica di Weimar.

Fig. 3- Marcel Breuer, Sedia Wassily o Modello B3, 1925.

Non a caso, sempre nel 1919 e nella stessa città di Weimar, aveva visto la luce il grande progetto del Bauhaus, la celebre scuola ideata e fondata dall’architetto Walter Gropius (Berlino, 1883 – Boston, 1969), fra le più innovative sperimentazioni non solo degli anni Venti, ma di tutto il Novecento.
In contrapposizione agli esiti raggiuti dall’architettura e dalle arti decorative, dominate, ancora in quel periodo, da eclettismo e decorativismo, la scuola di Gropius aveva contribuito alla diffusione della nuova cultura razionalista, che mirava a coniugare estetica e funzionalità, qualità, quest’ultima, considerata essenziale. Al Bauhaus veniva insegnata e praticata una nuova corrente di pensiero che, non senza il desiderio di contribuire al progresso sociale ed etico, proponeva un approccio minimalista all’architettura e al design, fondato sull’integrazione di tutte le discipline artistiche, senza gerarchie, sulla predilezione per decorazioni essenziali e geometriche e sull’utilizzo di nuovi materiali, come il vetro e il metallo.          
Ne sono un esempio, oltre che i progetti architettonici – come lo stesso edificio che, a partire dal 1926, ospitò la nuova sede del Bauhaus a Dessau – i numerosi esemplari di arredamento e oggetti disegnati nei laboratori della scuola, talvolta raggiungendo risultati di grande modernità, come nel caso della sedia in tubolare metallico ideata nel 1925 da Marcel Breuer (Pécs, 1902 – New York, 1981).

Fig. 4 – Man Ray, Rayogramma, 1926.

Un altro aspetto trattato dalla mostra di Bilbao è il nuovo interesse sorto intorno alla fotografia: invenzione ancora relativamente recente, questa disciplina, che era stata sino a quel momento considerata soprattutto un mezzo di supporto alla pittura, a partire dagli anni Venti acquisì una propria autonomia e venne indagata in tutte le sue potenzialità, sia come strumento per riprodurre e documentare la realtà, come nel caso del fotogiornalismo, sia con l’inaugurazione di generi più sperimentali. Ad esempio, Man Ray (Filadelfia, 1890 – Parigi, 1976) e László Moholy-Nagy (Bácsborsód, 1895 – Chicago, 1946), a sua volta docente al Bauhaus, svilupparono interesse per quei procedimenti chimici che permettevano di imprimere le immagini su pellicola e collaudarono quindi la nuova tecnica del fotogramma, consistente nel sovrapporre a un foglio di carta fotografica, sensibile alla luce, oggetti o forme geometriche, in modo da fissarvi le loro sagome, senza l’utilizzo di una camera. Le composizioni che ne risultavano, astratte e surreali, possono essere considerate un’espressione artistica indipendente dalle altre discipline.

Fig. 5 – Max Ernst, Chimera, 1928, Parigi, Musée National d’Art Moderne – Centre Pompidou.

Le innovazioni trattate sino ad ora interessarono soprattutto la società e gli stili di vita: tuttavia, lo stesso nuovo slancio e, allo stesso tempo, la necessità di confrontarsi con il mutato spirito di quei tempi aprì nuove frontiere anche nel campo dell’interpretazione dei rapporti fra l’essere umano, il mondo e la propria interiorità. Il nuovo movimento surrealista, nato nel 1924 con la pubblicazione, a Parigi, del Manifesto del Surrealismo, intercettò questa esigenza di rinnovamento, attingendo ad una disciplina all’epoca recente, seppure già assai dibattuta: la psicanalisi.        
Per gettare le fondamenta del proprio movimento, infatti, il fondatore, André Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966), e gli altri membri del gruppo – si ricordano, fra gli altri, Salvador Dalì, Max Ernst, Joan Mirò e René Magritte – si appropriarono di alcuni concetti freudiani, come la nozione di inconscio – una dimensione ancora da esplorare – o il meccanismo dell’automatismo psichico, che consisteva nell’espressione diretta dei propri pensieri, senza vincoli. L’obiettivo era quello di accedere alla dimensione più irrazionale della mente, attingervi, sovvertire la rigida mentalità e le convenzioni borghesi e contribuire così al miglioramento della società.        
Sul piano della produzione artistica, ma anche letteraria, questo si traduce in opere dal carattere onirico e visionario, nelle quali vengono giustapposti soggetti apparentemente inconciliabili, sia dal punto di vista logico che estetico, o nelle quali compaiono misteriose creature, come nell’enigmatica Chimera di Max Ernst. A ciò si accosta poi l’utilizzo di tecniche innovative, come il frottage, il grattage o il dripping.        
Oltre che dal surrealismo, gli anni del dopoguerra furono interessati da altri significativi sviluppi storico-artistici: sempre nella capitale francese, ad esempio, prese vita la cosiddetta “Scuola di Parigi”, espressione utilizzata dalla critica per indicare quel variegato gruppo di artisti – fra i quali ricordiamo Matisse, Derain, Modigliani, Picasso, Brancusi, Chagall – che abitava e operava nel cosmopolita quartiere di Montparnasse. Sebbene non si trattasse di una vera e propria “Scuola”, tanto variegati e plurali erano i linguaggi elaborati, si può individuare, in molti artisti, la conciliazione di una doppia tendenza: da un lato la prosecuzione delle ricerche iniziate con le avanguardie, negli anni Dieci, dall’altro lo sviluppo di un nuovo interesse nei confronti delle culture primitive o extra europee, anch’esse rilette e reinterpretate in un’ottica inedita.       
Queste brevi riflessioni, come si indicava all’inizio, sono state estrapolate e rielaborate a partire dal percorso, ben più ampio e completo, ideato per la mostra “Los locos Años Veinte”; questa esposizione offre un punto di vista a 360 gradi e, per certi versi, inedito su un decennio quasi leggendario, che nell’immaginario comune viene spesso associato soprattutto alla nota “atmosfera” da Grande Gatsby, scintillante e frenetica. La mostra in corso al Guggenheim di Bilbao aiuta invece a comprendere come le trasformazioni della società andarono ben oltre la dimensione mondana o lo stile di vita, ma inaugurarono un modo più moderno di vivere le città, le architetture e gli oggetti quotidiani e determinarono un nuovo approccio all’arte, di cui fu scoperto il lato funzionale, quindi maggiormente vicino alle persone, ma anche il potere di scandagliare e interpretare l’interiorità degli esseri umani.

Chiara Franchi

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