“Non era insolita l’esigenza di attribuire all’attualità forme e stili del passato […] come sempre, l’operazione marcava un dissidio nella realtà contemporanea che si voleva riformare sui valori individuati nelle epoche trascorse.”
Federica Rovati, L’arte dell’Ottocento
Può mai il sommo poeta aver incontrato Giotto di Bondone, il più grande artista del suo stesso tempo, nonché suo concittadino, e quasi coetaneo, durante il comune soggiorno a Padova; magari proprio sui ponteggi, davanti agli affreschi in corso di esecuzione nella cappella degli Scrovegni, alla presenza di collaboratori e altre maestranze, e avere intrattenuto una conversazione dotta sulle figure del Giudizio Universale, ove la tradizione vorrebbe che Dante sia stato persino raffigurato? Vero o meno che sia l’episodio, raccontato da Benvenuto da Imola, uno dei primissimi dantisti, è in questo modo che lo ha immaginato Leopoldo Toniolo, pittore dell’Ottocento specializzato in quadri di argomento storico ed esotico.

Nel secolo che apre l’età contemporanea, la costruzione dell’identità nazionale della quale si avverte il bisogno passa anche attraverso le immagini alla cui produzione sono deputati pittori e scultori. Insieme a numerosi soggetti variamente declinati (e tra ritratti, paesaggi e scene di battaglia o di vita quotidiana il panorama del diciannovesimo secolo è davvero molto variegato) la Storia, già protagonista durante la stagione neoclassica, continua a ritagliarsi uno spazio di primo livello, e il Medioevo, tanto screditato in precedenza, è adesso un crogiolo di temi utili per rinfocolare la coscienza e talora l’orgoglio del popolo. Si forma così un filone artistico dai caratteri immaginifici e a tratti melensi, in cui dominano una ricostruzione di epoche lontane ancora più vivida e sentita di quanto potessero essere solo cinquanta o sessant’anni prima le rappresentazioni della Grecia e della Roma antiche. Ricostruzioni tanto efficaci nell’intraprendere, soprattutto in Italia, un ruolo sociale, in un’epoca di nuovi valori che richiede un rinnovato impegno civile, al quale più non risponde l’indirizzo di ricerca tardo-settecentesca, quanto facili a produrre un linguaggio cristallizzato; destinato per natura a suscitare le antipatie dei pittori meno fedeli ai programmi delle accademie, come saranno per esempio i veristi, i macchiaioli o gli scapigliati. Il cambio di rotta e il fine di questa nuova pittura sono sotto gli occhi di tutti, come testimoniano le parole di Defendente Sacchi – figura di letterato a tutto tondo, giornalista, narratore, filosofo e critico d’arte – lasciate nel 1829 in occasione di un’esposizione dell’Accademia di Brera:
“Finalmente le Veneri, gli Adoni, gli Amori, le Minerve, le Psiche e i Ganimedi, le barbe venerande o spaventose di Giove o di Plutone, in fin tutte le pazze e le laide avventure della mitologia, sono bandite dalla savia pittura del diciannovesimo secolo […] Vi succede co’ gravi suoi ammaestramenti la storia, a piangere le azioni generose de’ padri nostri, ad innalzare col loro esempio gli animi”.
Per questo motivo vengono anche felicemente salutati dagli esponenti più attivi del pensiero risorgimentale, come Giuseppe Mazzini.

Molti sono i pittori che si cimentano con questo genere; Francesco Hayez, in Italia, ne diventerà l’interprete più rappresentativo, iconico e fecondo di influenze. Gli episodi che l’evo di mezzo può offrire, d’altro canto, abbondano e si prestano in tante occasioni a raccontare l’attualità, aggirando le varie forme di censura presenti nella penisola. Emblematico è il caso de I Vespri siciliani che racconta – seppur privilegiano la scena del giovane che uccide il soldato francese per difendere l’onore della sorella – la storia dei rivoltosi di Palermo che nel 1282 si mossero contro la presenza angioina, e questo è un tema che nella Milano austriaca si faceva leggere in chiave espressamente politica.
Il modo di raccontare condivide più o meno le stesse caratteristiche; tramontate ormai le posture eroiche riscoperte negli antichi rilievi, ma non sempre una certa maniera di dipingere di matrice davidiana, in quello che viene visto dalla critica come un giusto compromesso, l’ispirazione sembra guardare verso atteggiamenti più drammatici, spesso esasperati, con un trasporto tipicamente romantico, e situazioni talmente ricercate, di gusto pienamente aneddotico, da essere credibili solo nell’ambito della finzione che la pittura rende visibile. Ai personaggi dell’antichità, sospesi tra leggenda e Storia, si sostituiscono figure più concrete, e sentite come meno remote, colti nei momenti della loro vita che più li contraddistingue. Non solo l’Alighieri, o i ribelli siciliani: Pietro Rossi trattenuto dalla famiglia e dall’emissario del doge, Niccolò Macchiavelli e Girolamo Savonarola che assistono all’ingresso del re francese Carlo VIII a Firenze, o gli anconetani che giurano di resistere all’assedio del vescovo Cristiano di Magonza (diplomatico per conto di Federico Barbarossa) nel 1174, alla presenza dell’anziano senatore cieco.

Oltralpe, analogamente, popoli diversi ritrovano in quegli affascinanti secoli, prossimi a subire l’interessamento anche di una scienza storiografia progredita, contemporanea, le caratteristiche uniche e non condivisibili delle proprie radici culturali, in opposizione a quella «dimensione universale della cultura classica» di cui parla Federica Rovati. Con l’andare del tempo, tuttavia, è innegabile come questa tendenza si trasformi in una vera e propria maniera. Sempre più spesso, infatti, vengono raffigurati i fatti che maggiormente colpiscono la fantasia del pubblico, con il progressivo scadere del filone storico in una pittura ormai meramente di genere e dalla forte connotazione emotiva e documentaristica, dove (sempre Rovati) c’è pure un sottile «discrimine fra accertamento filologico e interpretazione ideologica».
Svuotato di qualsiasi elemento di educazione civile, le opere di pittori come il francese Paul Delaroche – famoso soprattutto per le sue rappresentazioni di pretendenti al trono e re inglesi soppressi, dai figli di Edoardo IV alla vicenda di Jane Grey – si rendono sempre più simili alle illustrazioni che accompagnano i romanzi di sir Walter Scott, alimentando un’ormai conclamata mania medievale.

Così, fra gesti teatrali e ricostruzioni artefatte ma suadenti, particolari d’invenzione e suggestioni estetiche, un’altra parabola artistica si compie, rimbalzando continuamente dall’intima e raccolta atmosfera degli atelier e il chiacchiericcio delle sale da esposizione, e lasciando un segno indelebile nella concezione di un’epoca. Il Medioevo che abbiamo in mente, dopotutto, proviene da lì. Molto, ancora oggi, dobbiamo all’Ottocento, e forse ancora più ai secoli bui che tanto bui come li hanno dipinti non sono.
Niccolò Iacometti
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