Questo è il primo brillante contributo (di speriamo numerosi prossimi futuri articoli) scritto da una giovane studentessa/restauratrice dell’Opificio delle Pietre dure di Firenze, istituzione che non ha bisogno di presentazioni, riconosciuta in tutto il mondo, e che oggi esordisce sulla nostra piattaforma. Sono molto lieto e anche fiero quindi di poter scrivere queste brevi note di introduzione solo per dare il benvenuto ad Alessia Bianchi e nell’augurare a lei e a noi di LetterArti una proficua collaborazione e scambio reciproco di idee per sempre più interessanti contributi futuri. Buona lettura a tutti e un grazie ad Alessia.
Marco Audisio
“Ogni corpo evidente fia dal lume e ombra circondato. Ombra è diminuzion di lume, tenebre è privazion di lume. Ombra primitiva è quella che appiccata ai corpi ombrosi. Ombra derivativa è quella che si spicca dai corpi ombrosi e scorre per l’aria. Ombra ripercossa è quella che è circondata da illuminata parete. La ombra semplice è quella che non vede alcuna parte del lume che la causa. L’ombra semplice comincia nella linea che si parte dai termini dei corpi luminosi.” Leonardo da Vinci: Codice C, Parigi, Istituto di Francia.
È sempre arso nell’animo umano l’ancestrale sentimento di comprensione della realtà e dei segreti che questa può celare; abbiamo tentato, nel corso dei secoli, di catturare ciò che non può essere concretamente afferrato ma che, al contempo, appare al nostro sguardo così evidente e tangibile, nel tentativo di renderlo in qualche modo meno ostile alla nostra visione del mondo e di scovare, nell’ignoto, parte di noi stessi. Molti occhi hanno osservato la bellezza del cielo, le variopinte trasformazioni stagionali e la grazia di volti puri ma pochi sono riusciti a carpire le scintille della loro vera natura: i grandi della storia sono tali in quanto hanno compreso che il segreto della vita risiede nell’eterno dualismo tra luce e ombra, sia in senso prettamente pratico sia dal punto di vista morale e spirituale; tramite la loro lunga ed ormai consolidata alleanza sono state prodotte quelle che di fatto possono considerarsi pura e semplice espressione del genio umano.
Soffermandosi ed analizzando in linea ancora generale il concetto di luce e ombra è giusto sottolineare l’importanza che la loro compresenza ha e di come la nostra mente traduca e rielabori tali stimoli esterni: difatti, mediante la sensibilità individuale e il modo in cui l’una e l’altra coesistono è possibile scorgere differenti significati e sfumature. È proprio il loro misterioso fascino che ha condotto molteplici artisti a sfruttarle nel tentativo di raggiungere una verità universale, portando alla produzione di opere altissime sia dal punto di vista qualitativo della tecnica che dal punto di vista di contenuti simbolici.
Tra questi spicca senza dubbio Leonardo, l’uomo il cui ingegno “infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto […] che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno”. Così Giorgio Vasari scrive ne’ “Le Vite” a proposito dell’artista che “dette veramente alle sue figure il moto et il fiato”.
Provenendo da una forte matrice disegnativa come quella della cultura pittorica toscana i volti, così come ogni altro elemento, sono trattati con grandissima attenzione e dettaglio: dagli enigmatici sguardi d’angelo alle dolci e affusolate mani delle giovani Vergini è incontestabile il fatto che vi sia quasi del divino in tutta la produzione artistica leonardesca, divino che però è frutto dell’incessante ricerca e osservazione della realtà a lui circostante.

Un’opera in particolare, ultimamente molto discussa dai maggiori esperti e attribuita (sebbene con molti dubbi ancora irrisolti) al grande artista vinciano, racchiude in sé quello che può essere definito “un modello concettuale del mondo visibile”.

La Natura Madre e Maestra che lo ha accompagnato e illuminato fin dalla più tenera età è, in questo piccolo olio su tavola, più che mai evidente: l’alone di luce che scorre delicatamente sulla ricca veste e che accarezza il candido incarnato di Cristo sembra non avere una provenienza esterna rispetto allo spazio osservabile ma generata dalla figura stessa del Salvatore, portandolo a distaccarsi nettamente da un sfondo scuro privo di contestualizzazione.
Nonostante la posa statica è nell’espressione calma ed enigmatica che si scorge il moto eterno dell’animo: è ragionevole pensare come la figura di Cristo, che regge tra le mani le sorti dell’umanità (nell’opera rappresentata dal globo vitreo), sia come un presente continuo, privo di confini e scadenza, fattore evidenziato dall’assenza di una netta e spigolosa divisione chiaroscurale. È nello sfumato leonardesco infatti e nel progressivo sovrapporsi degli strati pittorici a simulazione delle gradazioni luministiche che la materia assume finalmente una foggia.
Arrivati a tal punto però, sorge spontanea una domanda: la materia che ci circonda, dunque, non ha forma propria se ci ritroviamo in assenza della luce? E se essa non può essere delimitata entro confini grafici come può essere efficacemente rappresentata? È giusto ricordare che, sebbene abbia sviluppato la tecnica dello sfumato e della prospettiva aerea, Leonardo rimanga entro certi aspetti figlio del proprio tempo: nonostante le sperimentazioni e le straordinarie novità lo studio del tratto, l’attenta progettazione compositiva e la grande produzione su carta sono una caratteristica fondamentale della sua identità artistica. La risposta a tali domande può essere quindi ritrovata successivamente, nello specifico dalla seconda metà del XIX secolo, quando gli artisti impressionisti, utilizzando in maniera del tutto rivoluzionaria il contrasto tra luce e ombra, frammentano la vecchia visione del mondo rendendo il colore vero ed unico soggetto delle rappresentazioni.
Tornando alla filosofia artistica del genio rinascimentale si può dire che, tenendo comunque conto della sua formazione incentrata sulla preponderante graficità delle forme, egli avesse compreso come i confini di un corpo o di un paesaggio siano prettamente regolati dalla quantità di luce presente o assente e che l’unico modo per poter essere realmente capace di “imprigionare” frazioni del reale fosse tramite l’incompiutezza, altro fattore che lo contraddistingue portandolo a lasciare molte delle sue opere non terminate: se è vero che un buon artista deve attingere dalla natura e che il suo unico fine debba essere quello di rappresentarla, un’opera deve di conseguenza avvicinarsi quanto più possibile alla fonte d’ispirazione che, di fatto, è continuo divenire; un concetto questo modernissimo ripreso poi da Picasso il quale affermerà, molti secoli dopo, che è proprio nel completamento di un’opera d’arte che si incorre inevitabilmente alla morte della stessa.
Facendo un salto temporale, una figura successiva e diametralmente opposta (sia per condotta che per metodi esecutivi) a Leonardo, la si ritrova in Michelangelo Merisi da Caravaggio, un uomo tanto tormentato quanto geniale: rapidissimo nell’esecuzione delle sue opere, ha come caratteristica il rivoluzionario utilizzo del contrasto chiaroscurale, espediente scenografico tramite il quale dona dinamismo e drammatica verità alle proprie composizioni. Con Caravaggio, per la prima volta, la luce assume un valore assoluto; plasmando figure e azioni piega la realtà al proprio volere, rendendo umana la stessa spiritualità fino a calarla nella carne di un corpo comune, in una natura morta o in un drappeggio, raffigurandoli per come si presentano e non per come, secondo il gusto accademico, dovrebbero apparire: fino ad allora infatti, la maggior parte degli artisti si basava prevalentemente sullo studio dell’arte classica, con influssi derivati dai grandi protagonisti del Rinascimento quali Michelangelo, Raffaello, Leonardo, Correggio e Tiziano, ottenendo così figure e composizioni spesso idealizzate, volte all’esclusiva rappresentazione delle forme più alte di bellezza. Con Caravaggio si ha la rottura con la tradizione, sebbene la riverenza e l’ispirazione nutrita nei confronti dei grandi del passato sia stata presente durante tutto l’arco della sua vita; sarebbe più corretto quindi affermare che, al posto di una netta cesura, si sia avuta una straordinaria evoluzione e rielaborazione concettuale. Un ulteriore aspetto da non lasciare in secondo piano è come nella carriera artistica del pittore vi siano pochi dipinti in cui è presente uno sfondo identificabile, che passa nettamente in secondo piano rispetto ai soggetti, veri e soli protagonisti delle sue opere, dai quali traspare un grande carico emotivo ed introspezione psicologica.

Nel caso dell’eroe biblico non ci troviamo di fronte ad un giovane efebico dal portamento fiero e dallo sguardo vittorioso, come invece in molti prima di lui hanno rappresentato, bensì traspare qualcosa di molto più profondo, un’ombra che va al di là del concetto stesso di simulazione pittorica: il disgusto e la compassione che il futuro re d’Israele rivolge alla testa mozzata di Golia è frutto di un dialogo interiore che l’artista matura in relazione ad atti deplorevoli da lui compiuti, producendo a livello figurativo quella che può essere definita a tutti gli effetti una dicotomia tra il giovane puro (il suo spensierato passato) e il vecchio traboccante di peccati (il suo angosciante presente), risultando un’opera ricca di inquietudine e disperata ricerca di perdono. Il concetto che si cela dietro all’ingegno degli artisti del seicento si contrappone fortemente all’antropocentrismo umanistico del XV e XVI secolo: negli anni dell’horror vacui è percepita, come mai prima d’allora, l’esigenza di rendere l’osservatore parte integrante di opere traboccanti di effetti illusionistici, rendendo il concetto dell’effimero il punto focale di ogni prodotto artistico.
Nel caso di Caravaggio, specialmente nel periodo giovanile, ritroviamo una poetica carica di simboli e allusioni in cui prevalgono tali valori, insieme a sensualità e malinconia, elementi che però si contrappongono con forza alle sue produzioni artistiche successive, in cui al contrario si ha grande concretezza dei gesti; ritroviamo tuttavia lo sforzo di rendere l’invalicabile confine tra opera e realtà tangibile inconsistente, creando un continuum in cui entrambe le parti si completano e coesistono. Sebbene Caravaggio sia stato in grado di catturare la forma più vicina del vero, o meglio, una delle molteplici facce di cui il vero è costituito, il concetto di luce e ombra risulta essere qualcosa di molto più complesso di ciò che appare, qualcosa che include concetti ben più ampi dell’aspetto puramente fisico dell’interazione tra fotoni e la materia di cui noi ed il mondo circostante siamo composti e questo Francisco Goya lo sapeva bene: in quanto promotore dell’utilizzo dell’arte come mezzo di denuncia sociale, tramite le sue opere ha dimostrato che la consapevolezza rischia, purtroppo il più delle volte, di ricoprire la realtà di una patina scura, piuttosto che rischiararla, perché all’interno degli anfratti dell’animo umano si celano demoni che, a causa di determinate circostanze, fuoriescono divenendo incontenibili, propagandosi con l’impeto di un fiume in piena.
Degna di nota è la serie di incisioni intitolata “Disastri della guerra” sulle quali l’artista si concentra evidenziando l’incapacità umana nel comprendere, quasi come fosse incapace di apprendere dagli orrori del passato, come l’eterno ritorno del male porti esclusivamente ad episodi di strazianti barbarie, trasmettendo quindi in modo estremamente pessimistico il concetto della vittoria della bestialità e la morte della ragione.

Solo Goya, prima di Picasso con Guernica, è riuscito a rappresentare la ferocia e la paura della guerra con tale cruda intensità, frutto di chi l’orrore lo ha vissuto in prima persona: l’invasione napoleonica del 1808, le brutali rappresaglie e il martirio del popolo spagnolo marchiano in maniera indelebile l’animo dell’artista il quale, con il progressivo scorrere degli anni, matura una visione sempre più tetra della vita. Le tecniche utilizzate per la prima tavola della serie comprendenti acquaforte, puntasecca, bulino e brunitoio traducono in maniera tremendamente reale i lugubri sentori di un uomo in primo piano, coperto con vestiti laceri e genuflesso su un terreno arido privo di vegetazione. Il tratto è nervoso, come nervosi e carichi di angoscia sono gli occhi del soggetto, intenti a scrutare un cielo oscuro e tormentoso dal quale sembrano prendere vita gli stessi mostri tanto temuti.
L’elemento che rende ancor più straziante il contenuto dell’incisione è il gesto di disperata richiesta rivolto verso un luogo lontano, verso un dio indifferente alle imminenti (e troppo spesso già attuali) disgrazie del mondo. La luce presente, ottenuta lasciando intatta la lastra dai segni degli strumenti incisori, ricade interamente sulla smilza figura, alla quale potremmo attribuire un doppio significato: una luce benevola indicatrice dell’innocenza di chi presto cadrà vittima di chi umano, probabilmente, non lo è mai stato e una luce crudele, meschina, interessata ad evidenziare unicamente la tensione sul corpo e sul volto malnutrito di un soggetto, adoperato dall’artista, come espediente per rappresentare il ceto sociale che più ha pagato le conseguenze degli orridi gesti di guerra. Dunque, non sempre tutto è come appare, persino nella luce si hanno frazioni oscure così come nelle ombre possono germogliare delicati accenni luminosi: è la parabola della vita, in cui comprendiamo che nulla si divide nettamente dal suo opposto e che l’opposto, in quanto tale, non sarebbe considerabile se non vi fosse una sottile ma inestricabile unione delle parti.
Questo fa apprendere come sia essenziale, da parte di ognuno di noi, osservare la totalità delle cose: nella nostra quotidianità possiamo, e dobbiamo, rendere il passato (quindi il presente ed il futuro di altri) un punto di partenza grazie al quale poter tentare di costruire un mondo migliore per coloro che, un giorno, saranno ispirati dalle nostre gesta: prendiamo esempio da Leonardo, accogliendo con curioso entusiasmo l’eterna e dinamica trasformazione della natura, interrogandoci sempre affinché le nostre azioni siano esclusivamente dettate da un accurato metro di giudizio; ispiriamoci a Caravaggio (stavolta però, facendo riferimento unicamente alla sua carriera artistica), portando la spiritualità in ogni nostro gesto, non per forza inteso da un punto di vista prettamente religioso, quanto più di una coscienza del fatto che ciò che abbiamo conserva a livello intrinseco la grande bellezza creativa, apprezzandone le qualità e scorgendo tale meraviglia in ciò che all’apparenza sembra non conservarla; traiamo spunto da Goya, cercando di trovare la stessa forza che ha avuto l’artista spagnolo nel ribellarsi a sistemi ingiusti, denunciandone l’insensatezza e crudeltà. Lottiamo, sempre e comunque, per portare nel mondo le luci avvolgenti e le quieti ombre meditative che tanto hanno cercato di catturare i grandi del passato.
Ed infine, molto più semplicemente, prendiamo spunto dall’arte, perché l’arte in ogni sua forma, in ogni sua sfumatura, in ogni sua rappresentazione, è il miglior modo per poter conoscere le nostre origini, la nostra attualità e le nostre future frontiere.
Alessia Bianchi
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