Nell’opera di valorizzazione e promozione del patrimonio culturale, il cinema può offrire un grandissimo contributo. Fatti salvi pacificamente gli evidenti limiti e le sue necessità linguistiche, la sua capacità di rendere il passato vivo e visibile costituisce la più grande e indiscutibile caratteristica di uno strumento divulgativo veramente efficace.
Questo, in buona sostanza, ce l’ha ricordato anche il regista inglese Hugh Hudson (noto soprattutto per aver diretto il pluripremiato e intramontabile Momenti di gloria, un inno al valore atletico nell’Inghilterra di primo Novecento) grazie alla sua ultima per quanto non recente fatica dietro alla macchina da presa. Stiamo parlando di Altamira, una produzione internazionale dell’ormai lontano 2016, che per l’interesse culturale ha visto coinvolte nel ruolo di alti patrocinatori le più importanti autorità spagnole, dall’allora Ministero dell’educazione, la cultura e lo sport al gobierno della comunità autonoma di Cantabria, ossia la regione iberica che fra placide colline, lussureggianti e talvolta brumose campagne e coste a strapiombo sul mare, le cui immagini fanno da poetica cornice alla narrazione, ospita uno dei siti archeologici più antichi e interessanti che siano mai esistiti.

La storia è quella vera e dal finale dolceamaro di Marcelino Sanz de Sautuola (1831 – 1888, interpretato da Antonio Banderas), che mise in gioco e perse tutto quello in cui credeva affinché prevalessero gli onesti valori di un mondo nuovo come quello che gli uomini più lungimiranti si propongono spesso di delineare. Attraverso il ricordo della sua unica e amatissima figlia Maria, che all’epoca dei fatti aveva solo nove anni, il film ripercorre la vicenda che portò al ritrovamento, quasi per caso, nel 1878, di una grotta nei pressi di Santander, con una stanza rimasta nascosta per migliaia di anni nella quale si conservava ancora intatto un vasto e meraviglioso ciclo di pitture rappresentanti alcuni esemplari di bisonti preistorici. Quella che dovrebbe essere una scoperta tale da lasciare affascinato tutto il mondo accademico – come fu per Juan Vilanova, professore di geologia che due anni più tardi presentò gli studi di Sautuola a Lisbona, al IX congresso internazionale di antropologia e archeologia preistorica – incontrò invece una resistenza che terminò nell’infamante accusa di contraffazione. Fra i suoi primi e maggiormente accaniti detrattori i quali poi avrebbero dovuto ricredersi, un ruolo fondamentale lo ebbe il giovane e illustre studioso Emile Cartailhac, che in quel momento rappresentava il punto di riferimento per la paleontologia e l’antropologia. Con il suo Mea culpa di uno scettico (1902), redatto allorché furono rinvenute pitture rupestri non meno straordinarie in Francia, Cartailhac ritrattò alla fine ogni dubbio in merito all’autenticità di simili manifestazioni artistiche, e riconobbe la buona fede di Sautuola, ovvero dell’uomo che prima di chiunque altro ne aveva trovate ad Altamira, non lontano dall’uscio di casa; ma purtroppo nel frattempo Sautuola era già morto.

Ritraendo uno spaccato della sontuosa vita in società nella Spagna di fine Ottocento che fra ricevimenti musicali e domeniche in chiesa lascia più terreno al pettegolezzo e alla propaganda che alla divulgazione (troppo lontani sembrano infatti gli ambienti scientifici più all’avanguardia), Hudson sceglie così di raccontare un brano di storia dell’arte toccante sotto il risvolto umano e ricco d’insegnamenti. Gli argomenti trattati sono moltissimi, qualcuno forse un po’ inflazionato (come potrebbe essere ormai la contrapposizione fra scienza e fede) ma tutti validi per costruire un educativo manifesto dei sani principi universali. L’amore di un padre e di un uomo libero dai pregiudizi di qualsiasi genere si traduce quindi nelle preziosissime lezioni che animano le chiacchierate fra Sautuola e Maria (la vera protagonista del film, colei che quella stessa storia scrisse di propria mano e perciò il tramite verso lo spettatore) e accompagnano un’infaticabile ricerca della verità mostrandone i più virtuosi presupposti e funzionamenti.
I fatti e le traversie che hanno riportato alla luce la più antica opera d’arte ad oggi conosciuta offrono quindi lo spunto ideale per intessere un elogio del sapere basato sulle evidenze, contrapposto a un dogmatismo che se all’inizio può sembrare sbilanciato verso il mondo della religione, si scopre poi non lasciare immune neanche quello degli studiosi.

Poco sorprende, d’altronde, che l’improvvisa comparsa di pareti dipinte in caverne millenarie abbia costituito motivo di turbamento, in un clima già in subbuglio per l’irruzione dell’evoluzionismo nella discussione sull’origine e la natura dell’uomo primitivo. Fino a quel momento, infatti, nessuno aveva mai visto qualcosa di anche solo lontanamente simile ai bisonti di Altamira, che per grado di fedeltà naturalistica non rientravano negli esempi d’arte conosciuti e ricondotti all’opera dei nostri più lontani antenati. L’idea che l’umanità avesse progredito da uno stadio indubbiamente arretrato sotto il profilo tecnologico sembrava non ammettere che individui vissuti prima che venissero inventate l’agricoltura e la ruota possedessero una sensibilità e una capacità di osservare i particolari così elevate, qualità che si credevano proprie solo di artisti più recenti come Michelangelo e Leonardo da Vinci.
Il contributo di Sautuola, pertanto, fu come una pietra in uno stagno alla ricerca della propria tranquillità, un fulmine nel cielo non proprio sereno delle posizioni darwiniste che s’andavano faticosamente promulgando e l’incursione di un modesto appassionato, fatto passare come impostore, in terreno che sembrava non appartenergli.

Analogamente gli esponenti di un cristianesimo ancora poco incline al secolarismo, che proprio in quel dibattere vedevano una minaccia alle loro convinzioni, non accolsero bene l’ennesima novità e riprova che scienza e fede toccassero ambiti differenti, e iniziarono così una campagna per screditare il nome di Sautuola che fino a quel momento, sebbene forse in maniera un po’ sopra le righe, era stato un membro rispettabile della piccola nobiltà cantabrica. O perlomeno, questo è ciò che si vede nel film.
La costante presenza dell’elemento religioso (come pure la storia d’infatuazione, in verità piuttosto blanda, fra donna Concita, moglie di Sautuola, e il fantomatico pittore incaricato di copiare i disegni preistorici) appare forse più come un elemento per movimentare la sceneggiatura ed innescare la disputa sull’importanza di un sapere obiettivo e razionale, ma riesce nell’intenzione. Che proprio questo sia un tema principale della narrazione è dichiarato esplicitamente dalla sequenza di apertura in cui si alternano ai ferventi discorsi di Cartailhac i temibili sermoni di un non meglio identificato monsignore senza scrupoli (interpretato da un irriconoscibile ma pur sempre convincente Rupert Everett), e proseguito dalla rappresentazione del personaggio di Concita, la quale viene descritta come una donna devota e confusa nel momento in cui comincia a temere che la figlia venga influenzata dall’entusiasmo dell’amato marito.

Alla fine, comunque, lo scopo di Hudson è dimostrare come gli oscurantismi di ogni schieramento abbiano le gambe corte, e addirittura un qualche binomio tra fede e ragione possa esistere veramente; anche a costo di approntare un falso storico quando nell’epilogo, ambientato vent’anni più tardi, Henry Breuil (uomo di chiesa e studioso di paleontologia, presentato già come abate e un po’ troppo avanti con l’età rispetto alla controparte veramente esistita) accompagna il ravveduto e ormai maturo Cartailhac a visitare la vedova di Sautuola, e ad ammirare finalmente la sconvolgente bellezza di quei dipinti che tanto scalpore avevano causato.

Benché ormai siano passati moltissimi anni e non si contino più gli studi e le pubblicazioni, restano ancora aperti i numerosi interrogativi che germogliarono nella mente di Sautuola: chi ha fatto quei dipinti, e per quale motivo? Domande che nonostante le molte e diverse ipotesi, formulate da studiosi di ogni tipo, probabilmente non avranno mai una risposta.
Oggi, come la sorella francese a Lascaux, Altamira è chiusa ai visitatori per non compromettere l’integrità del suo tesoro, ma la sua storia viene raccontata ogni anno fra i banchi di scuola di ogni ordine e grado e nelle aule universitarie. Grazie però a questo film, adesso, anche il grande pubblico, quello che più spesso si sente escluso dagli ambienti della cultura, può avere un’occasione di riappropriarsi di un bene collettivo, e della memoria di colui che lo restituì al mondo.
Niccolò Iacometti
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