Rinnovandoci rinnoviamo: l’eclettismo nella produzione grafica di Galileo Chini

Artista poliedrico, acuto osservatore e uomo dalla straordinaria sensibilità, Galileo Chini incarna una delle personalità più affascinanti e peculiari all’interno del contesto culturale italiano del ‘900.
Fin dall’inizio della sua carriera, le sue posizioni estetiche anticipano largamente le tendenze che si sarebbero susseguite con fervore negli anni a venire, contraddistinguendolo per la grande capacità di cogliere stimoli e novità di gusto internazionale, in una dimensione espressiva, secondo la sagace decifrazione del dottor Fabio Benzi in una delle innumerevoli introduzioni condotte in merito al personaggio, “nutrita di un cosmopolitismo robusto, non superficiale e parimenti dotato di una foga creativa che ne fa una delle incarnazioni europee più complete dell’artista universale individuato dall’ideologia modernista dell’Art Nouveau”.

Fig. 1 Mario Nunes Vais, Galileo Chini davanti al quadro “La Sfinge”, 1903

Oltre ad essere un abile pittore, Galileo Chini è anche affreschista, grafico, scenografo, ceramista e capacissimo restauratore: la totalità intellettuale di matrice umanistica radicale alla quale aderisce gli permette di rielaborare la realtà per mezzo di un’autonomia di linguaggio, ricchezza di accenti e poetica figurativa che, in maniera vivace e spontanea, gli consente di mettere in atto una compenetrazione dinamica tra le arti, abbattendo quelle barriere che per secoli hanno separato le Arti Maggiori dalle cosiddette Arti Minori; durante la sua formazione artistica infatti, trasgredisce le imperanti regole accademiche, oramai messe sempre più in discussione, seguendo piuttosto le teorie inglesi degli “Arts and Crafts” e le innovazioni linguistiche delle Secessioni mitteleuropee.
Il concetto che non esistessero distinzioni espressive nelle varie pratiche artistiche aveva avuto nell’ambiente tradizionalista italiano pochissimi precedenti, riconducibili a figure come Antonio Ximenes (Palermo, 18 aprile 1827 – Roma, 8 settembre 1896) e Adolfo De Carolis (Montefiore dell’Aso, 6 gennaio 1874 – Roma, 7 febbraio 1928), modelli élitari che si inserivano all’interno di un circolo ben più scarno di complice inventiva.
La novità di Chini risiede proprio nel promuovere un concetto di opera d’arte di ampia diffusione, talvolta (nel caso specifico della produzione ceramica) di stampo quasi industriale, con una fortissima incidenza nei costumi e nel gusto quotidiano: se prima l’oggetto e il linguaggio artistico erano circoscritti alle chiuse ambientazioni intellettuali inclini al gusto modernizzante, ora più che mai si fanno spazio nelle sedi pubbliche, invadendone i luoghi della vita e della socialità attraverso una fusione con il sinuoso cangiantismo della natura mai assaporato prima.

Fig. 2 Arte della Ceramica, Piatto con pesci, su progetto grafico di Galileo Chini, 1900 circa, Collezione Privata

D’altra parte il mutamento di pensiero nei confronti delle arti applicate era già iniziato con l’accettazione da parte della Société Nationale des Beaux-Arts di opere di arti decorative al Salon du Champ de Mars nel 1891.
Come si può percepire dalle cronache dell’epoca l’iniziativa non solo ha riscontri positivi, ma segna anche concretamente l’affermazione di un processo irreversibile: “È evidente, e si può agevolmente constatarlo ora, che l’ingresso delle arti applicate nei Salons ha avuto sulla loro salute e il loro destino la più felice influenza. Il pubblico ci si è interessato tanto e più che al percorso della grande arte, precisamente perché queste manifestazioni erano per lui più nuove. La piega è ormai presa e un Salon non sarebbe più un Salon se non ci si incontrassero gioielli, pezzi di oreficeria, ceramica, vetri, tappezzerie o stoffe, mobili.

Le parole di John Ruskin (Londra, 8 febbraio 1819 – Brantwood, 20 gennaio 1900) ben trasmettono l’entusiasmo di un periodo dalla composita natura: è infatti importante sottolineare che, a differenza dei periodi storico-artistici precedenti in cui l’evoluzione, per quanto grande, è sempre stata caratterizzata da un andamento lineare, già dalla fine dell’800 e ancor più marcatamente nella prima metà del ‘900 si ha una ramificazione e distinzione stilistica estremamente ricca, in cui la novità non viene più affrontata con scettico criticismo, bensì incoraggiata e reinterpretata con estro.
Oramai le nuove idee sono quindi lanciate all’interno dell’ambiente intellettuale e culturale dell’epoca, diffondendosi, con denominazioni diverse, nel contesto europeo: Art Nouveau in Francia, Modern Style in Inghilterra, Jugendstil in Germania, Sezession Stil in Austria, Modernismo catalano in Spagna, Floreale o Liberty in Italia, sono tutte sfaccettature dello stesso magnifico diamante.

La storia artistica di Chini inizia così nell’ultimo decennio del XIX secolo, in piena nascita e formazione di tali istanze estetiche: in pittura aderisce fin dagli esordi al Divisionismo, coniugandolo con uno spirito nettamente simbolista, in una direzione espressiva e stilistica tipicamente italiana, già impostata da personalità di spicco quali Giovanni Segantini (Arco, 15 gennaio 1858 – Pontresina, Svizzera, 28 settembre 1899), Pellizza da Volpedo (Volpedo, 28 luglio 1868 – Volpedo, 14 giugno 1907), Gaetano Previati (Ferrara, 31 agosto 1852 – Lavagna 21 giugno 1920) e Plinio Nomellini (Livorno, 6 agosto 1866 – Firenze, 1943).
Pur inserendosi nel clima ancora fervido del decadentismo internazionale (fondato invece sulle figure di Rodin, Besnard, Klimt, Hodler ecc.), Chini propone un divisionismo libero, antinaturalistico e riflessivo, emancipando il puro valore concettuale sull’esclusiva rappresentatività dell’opera d’arte.
In particolare è nella grande varietà tecnica e contenutistica riscontrabile nella produzione grafica che può essere distinta e analizzata con cura l’essenza metamorfica dell’artista.

Fig. 3 Galileo Chini, Stampa III, La Morte e il Bambino, 1902-1905, acquaforte e acquatinta su zinco, siglata (con monogramma a teschio) e datata in basso a destra << G-C 02 >>, Collezione Privata

Come già accennato, sono le angoscianti e ammalianti liriche provenienti dall’Europa del Nord che dilagano, con nuovo vigore, tra le più tradizionaliste bellezze italiche ed è proprio da queste visionarie notazioni che Chini interroga, riplasma e sublima “polifonie figurali”, nel tentativo di renderle quanto più aderenti al proprio credo intellettuale.
Nel caso specifico della Morte e il Bambino, si ha una metafora nella metafora: la figura della Nera Mietitrice, che qui appare sorpresa e contrariata di fronte all’inconsapevole e innocente gesto di avvicinamento del neonato, assume significati differenti, dando così adito ad interessanti meditazioni sul tema; nei toni scuri dell’inchiostro e nelle ombre angoscianti dei gesti traspare il concepimento di uno stato d’inquietudine che dall’individuale si fa collettivo, assumendo tutte le caratteristiche proprie dell’animo umano  in cui, per qualche peculiare ragione, è la figura della Vita ad attribuirsi le connotazioni di turbamento che sono sempre state personali della Morte.
Tra le intimorite cavità orbitali dello scheletro e le braccia sollevate del bambino viene inevitabilmente a crearsi una dimensione sospesa, all’interno della quale i sensi si attenuano ed il fiato sembra mancare; improvvisamente però, per qualche attimo consolatorio, la Morte allenta la propria presenza, progredendo e dileguandosi poco a poco verso gli alberi, oltre l’orizzonte visibile, assimilabile ad una sorta di lontananza della memoria.
Sebbene il ciclo delle quattro incisioni sulla Morte realizzate da Galileo Chini mostrino delle similitudini con il ciclo di acqueforti ispirate al celebre quartetto schubertiano Der Todt und das Mädchen, realizzato attorno al 1900 dall’ungherese Adolf Hirémy-Hirschl (Romania, 31 gennaio 1860 – Roma, aprile 1933), è visibile quella inconfondibile impronta nazionale in cui le ispirazioni simboliste si allacciano, in stretto dialogo, alle preoccupazioni sociali e speranza nell’avvenire, in una rivincita della vita sulla morte, ben lontana dalle oscure e macabre brume tedesche.

Fig. 4  Adolf Hirémy-Hirschl, Der Todt und das Mädchen, 1902-1905, acquaforte, Collezione Privata

Quando il “sonno della ragione genera mostri”, l’unico risveglio possibile è quello dell’arte: persino attraverso l’arte, però, tale risveglio può mostrarsi brusco e violento, portando con sé immagini e incubi necessariamente turbanti, facendosi così carico di raccontare una realtà crudele ma tristemente reale.
Sono passati una trentina d’anni dalle incisioni calcografiche di forte matrice simbolista: nel corso di questa ampia finestra temporale Chini assume ruoli di spicco sempre maggiori giungendo ad ottenere committenze di stampo internazionale; impossibile tralasciare il viaggio iniziato nel giugno del 1911, quando da Genova si imbarca sul piroscafo “Princess Alice” diretto a Bangkok, lavorandovi fino al 1913, anno di ritorno in Italia.

Fig. 5 Galileo Chini, Princess Alice, olio su cartone, 1911, Collezione Privata

Successivamente al triennale soggiorno in Oriente, nell’artista si sviluppa una vena meditativa e di trasfigurazione della realtà che, attraverso ritmi cromatici e immagini permeate da un trasporto interiore non frenato, fluisce attraverso la materia donando forma ad una sensibilità e ad una gioiosa osservazione del mondo e delle sue diversità.

Fig. 6 Galileo Chini, La Bisca del Gran Cinese a Bangkok, olio su cartone, 1912 circa, Collezione Privata

Negli anni ’30 però, alle porte del secondo conflitto mondiale, Chini comprende che il proprio isolamento psicologico, che gli aveva permesso di produrre soggetti sospesi nel tempo e nello spazio, non può più portarlo ad esprimere con serena indipendenza quell’estrosa cifra stilistica che tanto lo aveva contraddistinto: in occasione della visita a Firenze di Adolf Hitler, avvenuta il 9 maggio del 1938, l’artista studia e concepisce una delle opere di denuncia più cruente della sua intera produzione artistica.

Fig. 7 Galileo Chini, Il dittatore folle, olio su cartone, 1938, GAM, Palazzo Pitti, Firenze

Nella visione di onirica follia prodotta con l’aperta intenzione di mostrare, all’interno del contesto dittatoriale, le uniche conseguenze di tale dissennato potere, tra il groviglio di corpi martoriati e le asfissianti nubi di fuoco e polvere che imperano sullo sfondo, va’ in primo piano a stagliarsi, alienato e inebriato dalle proprie gesta, il fantasma di ciò che un tempo pareva essere umano, la cui forma altro non è che un vuoto contenitore al cui interno insania e dissociante ragione strisciano incatenandosi permanentemente tra loro, infestando in maniera definitiva una psiche corrotta e compromessa.
Scorrendo tra i volti tumefatti di donne, uomini e bambini non colpevoli, metafore e accorti simbolismi dialogano finemente tra loro, in una complicità di formalismi internazionali mai assaporati prima: tra la massa di membra dilaniate, sulla base dell’iconologia occidentale che subito ricorda l’episodio evangelico della Strage degli Innocenti reinterpretata in chiave contemporanea, viene a fondersi l’esperienza orientale attraverso cui Chini continua a denunciare la bestialità dell’animo; nel serpente che scorre e cinge il collo del dittatore, oltre al simbolo primordiale del male riscontrabile nell’Antico Testamento, è interessante effettuare un ulteriore rimando religioso e analizzare la figura di  Shiva, entità divina rappresentata con un serpente attorno al collo e appartenente alla cultura induista dove nei Purana e nei Tantra assume il ruolo di distruttore che include, nella Trimurti, Brahma (il creatore) e Vishnu (il preservatore).

Nel caso specifico di Shiva però è importante precisare che il concetto di distruzione occidentale poco ha a che vedere con la vera essenza della divinità; quella che erroneamente viene chiamata devastazione, nella filosofia induista è più riconducibile ad un riassorbimento delle forme che oscillano tra i due aspetti della realtà: quello in cui le forme sono esplicite e quello in cui sono implicite, permettendo così un progressivo rinnovamento e una costante evoluzione.
L’animale può quindi essere ricondotto, entro certe chiavi di lettura, a simbolo di buon auspicio di cambiamento e rinascita, un barlume minuto ma persistente di speranza in cui ancora una volta, tramite l’individuale figura dell’artista, viene narrato un generale stato di malessere in un primo momento soppresso, nella maggior parte delle sue manifestazioni, dal totalitarismo nazifascista.

Altro arguto rimando simbolico che attesta la grandissima erudizione e assimilazione quasi famelica delle eterogenee diversità culturali, si ritrova nel nodo che il serpente produce con il suo stesso corpo; fin dai tempi più antichi, il nodo ha rivestito una grandissima rilevanza dal punto di vista simbolico e spirituale: per gli egizi, il cosiddetto Nodo di Iside era simbolo di immortalità e dell’amore divino, mentre il Nodo di Gordio, re di Frigia, racchiude il valore che la pazienza e la perseveranza hanno nella conquista più duratura di sé stessi.
Nella mitologia indiana però, il nodo assume un valore funesto, associato al Re Yama, Deva della morte, “colui che irrimediabilmente trattiene con sé”.
È infatti nell’eterno nodo dell’oblio che il diabolico disumano rimarrà relegato: non esisteranno tramonti né dolci brezze estive ma solo l’angosciante consapevolezza di non poter fuggire da sé stessi.
Nel secondo dopoguerra la pittura di Chini inizia progressivamente a scurirsi, perdendo quell’esotica luce frutto di ricordi ed esperienze di vita ormai lontane, arrivando a esisti per certi versi espressionisti, in un moto che dall’interno scaturisce verso l’esterno non più caratterizzato dall’assunzione da parte dell’autore di libertà messaggere, quanto più di sfogo ed emancipazione di concetti e sentimenti totalmente personali, terminando la sua carriera in un cupo simbolismo (attingendo alla produzione del Previati mistico) attraverso il quale recupera temi della sua gioventù, resi drammatici dalla progressiva perdita della vista e dalla prossimità percepita della morte.

Fig. 8 Galileo Chini, L’ultimo amplesso, olio su compensato, 1953, Fondazione Credito Valdinievole, Montecatini Terme

Il colore si fa grumoso, stanco, aggrappandosi quasi con fatica al supporto predisposto dal pittore. Il delirio prende man mano spazio nella psiche scoraggiata dell’artista che, quasi come Goya 162 anni prima, si richiude in sé stesso, dando libero sfogo al proprio inconscio.

Fig. 9 Galileo Chini, Follia macabra, olio su tela, 1954, Collezione Privata

Galileo Chini si spegne a Firenze il 23 agosto del 1956 all’età di 83 anni: la sua arte ha saputo stupire e unire, difendere e denunciare, affascinando mondi vicini e lontani, compiendo giri e sperimentazioni che, come nella parabola della vita, al momento della fine sono naturalmente ritornate al proprio inizio.
Rinnovandoci rinnoviamo” è uno degli slogan più conosciuti dell’artista: in tempi così precari, così ricchi d’odio e individualismo spicciolo, dobbiamo avere il coraggio di affacciarci verso il futuro abbandonando la stagnazione delle nostre coscienze, di essere quel Bambino che,  nell’incisione del 1905, ha avuto il coraggio di protrarre le braccia verso la Morte, di essere quella “Primavera che perennemente si rinnova”.

Alessia Bianchi.

2 risposte a "Rinnovandoci rinnoviamo: l’eclettismo nella produzione grafica di Galileo Chini"

Add yours

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Blog su WordPress.com.

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: