Genovesino. Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona è la mostra in scena presso le sale del Museo Civico Ala Ponzone di Cremona fino al prossimo 4 febbraio 2018, curata da Francesco Frangi, Valerio Guazzoni e Marco Tanzi. L’esposizione, la prima dedicata a Luigi Miradori (questo il nome di Genovesino) raccoglie circa una cinquantina di opere e prova a raccontare, sul filo della cronologia, la vicenda umana e artistica di un pittore nato a Genova intorno al 1605 e ben presto approdato in Lombardia per trovare fama e fortuna. Per narrare la parabola di questo artista, i curatori sono partiti dal testo, ancora oggi fondamentale come approccio inziale per studiare Genovesino, di Mina Gregori, allieva di Roberto Longhi, comparso sulla rivista Paragone nel 1954. Alla Gregori, che su Genovesino si era laureata proprio con il suo maestro, i curatori rendono omaggio dedicandole la mostra. È questa una di quelle esposizioni frutto di numerose ricerche scientifiche e che quindi meritano senz’altro attenzione da parte del pubblico sia specialista che non. A fianco dei tre professori, ormai come di consueto in questo genere di eventi, sono affiancati giovani studiosi raccolti dalle università per affrontare la stesura delle schede e per imparare il mestiere immergendosi, come i curatori, nelle ricerche di archivio.
Molti sono ancora i punti oscuri della biografia del Genovesino, incerta è addirittura la sua data di nascita che oscilla tra il 1600 e il 1605 circa. Durante gli anni passati nella città della lanterna (Genova), il Miradori muove i suoi primi passi ma non riesce a farsi notare. La prima notizia d’archivio sull’artista è del 1627 quando Luigi sposa a Genova Girolama Veronesi da cui avrà una figlia, morta in tenera età. Nel 1632 Genovesino è già presente a Piacenza (che a quel tempo è feudo farnesiano), lo attesta un documento d’archivio che registra la nascita del suo secondogenito. Il Miradori è probabilmente fuggito dalla città della lanterna a seguito di una grave ondata di peste, seguendo il conterraneo Bernardo Morando, mercante, poeta e letterato che ancora giovanissimo fu chiamato a dirigere la “ditta” di famiglia insediata proprio a Piacenza. Tra il 1634 e il 1635 Genovesino perde gli effetti più cari: i figli e la prima moglie. Nel settembre del 1635 si risposa con la genovese Anna Maria Ferrari, ma la fortuna gli è ancora ostile; in quello stesso anno scrive una lettera a Margherita de Medici, duchessa di Parma e Piacenza (e moglie di Odoardo I Farnese) per chiederle il permesso di lasciare i territori farnesiani per «andare in altre parti a procacciarsi la sua fortuna». Nel 1637 il Miradori è testimoniato a Cremona dove fa battezzare la figlia Antonia. Nel 1639 compra una casa presso la contrada di San Clemente in Gonzaga, nei pressi del Torrazzo. A Cremona, la fortuna inizia a volgersi a suo favore; nel giro di pochissimo tempo diventa il protagonista indiscusso della città. Esegue infatti numerose opere sia per committenti privati che per i numerosi ordini religiosi sparsi per la città e nei suoi dintorni. Diventa quindi il protagonista centrale della pittura barocca a Cremona. A sancire il sui definitivo trionfo nella città lombarda contribuisce il nuovo governatore spagnolo Alvaro de Quinones, nominato nel 1639 ed insediatosi in città nel 1644. Tra il 1654 e il 1655 il Miradori compare come priore della confraternita del Santissimo Sacramento in San Clemente a Cremona; quest’ultima onorificenza è per il pittore il raggiungimento massimo della fama e della notorietà che tuttavia non dovette godersi a lungo se già il 21 febbraio del 1656 fa testamento a favore dei suoi figli Giacomo, Felice Antonia (questi seguiranno le orme del padre), Elisabetta e Antonio Francesco. Muore a Cremona il 24 maggio del 1656.
Tra i numerosissimi lavori, tra pale d’altare e dipinti per la committenza pubblica, che Genovesino ha lasciato a Cremona e che sono presenti in mostra, vanno sicuramente menzionate le due grandi tele raffiguranti la Nascita della Vergine e la Decollazione di san Giovanni Battista, eseguite nel 1642 per la chiesa di San Lorenzo e oggi conservate nello stesso museo civico che ospita la mostra. Conservate nel medesimo museo vanno segnalati anche i due dipinti raffiguranti Cupido dormiente (Vanitas) e il Ritratto di Sigismondo Ponzone (quest’ultimo datato al 1646). Sempre per le grandi pale d’altare non si può non citare la Presentazione della Vergine al tempio che si conserva nella chiesa di San Marcellino e Pietro o la tela con il Miracolo del Beato Bernardo Tolomei, realizzata per la chiesa di San Lorenzo come le due tele poc’anzi menzionate, e oggi conservata presso la Parrocchiale di Soresina nei pressi di Cremona. Se si osserva il personaggio sullo sfondo alla destra del Beato Bernardo Tolomei non si potrà fare a meno di avvicinarlo ad un’altra opera di Genovesino, pure presente all’esposizione, ovvero il Ritratto di un monaco olivetano della famiglia Pueroni di collezione privata, creduto fino a poco tempo fa opera di Francisco de Zubaran per la sua altissima resa cromatica negli effetti luminosi sul panneggio dell’effigiato e per la grande resa psicologica del volto. Bisogna inoltre citare il Miracolo di San Giovanni Damasceno, conservato nella chiesa di Santa Maria Maddalena, e le due monumentali opere dipinte per la chiesa di San Francesco e che oggi si conservano come deposti della Pinacoteca Ala Ponzone nel Palazzo Comunale della Città (per le loro dimensioni inamovibili dalla loro attuale sede), ovvero l’Ultima Cena (in mostra è presente un piccolo e vivace bozzetto di medesimo oggetto che si conserva in collezione privata) e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, realizzate da Genovesino intorno al 1647-1648. In quest’ultima opera si dovrà certamente notare la monumentale e imponente figura femminile a petto nudo al centro del telero raffigurante probabilmente l’allegoria della carità o i due gruppi di figure: a sinistra quello di Cristo che sta compiendo il miracolo della moltiplicazione tra gli sguardi attoniti degli astanti e a destra quello della madre che tiene in grembo un bambino e con la mano sinistra regge, per non farlo cadere, un altro fanciullo che la sta abbracciando; entrambe prove altissime del realismo di Genovesino. Tra il 1645 e il 1646 il Miradori esegue i dipinti con le Storie di San Rocco per l’omonimo altare nel Duomo di Cremona. In mostra, dalla chiesa dei Santi Marcellino e Pietro, arrivano invece, restaurate per l’occasione le due belle tavole con il Martirio e la Gloria di Sant’Orsola (1652) le cui vicissitudini conservative e critiche sono sapientemente ripercorse nella scheda del catalogo redatta da Giambattista Ceruti.
Se per le opere pubbliche cremonesi di Genovesino la cronologia e lo stile adottato dal pittore risultano relativamente chiari, la strada si fa via via più ostica quando si deve organizzare la cronologia e definire lo stile del pittore prima del suo “trionfo barocco in terra lombarda”. Diverse sue opere infatti presentano dei problemi di cronologia oltre che stilistici; il Miradori tende infatti a non avere “stagioni stilistiche”, ma a seconda delle committenze e dei luoghi che frequenta è incline a variare la qualità e il livello dello opere che dipinge, mescolando toni caravaggeschi a guizzi tipicamente barocchi e questa sua peculiarità rende difficile un sicuro inquadramento cronologico di tutte le sue opere che non data né firma quasi mai, fatta eccezione per la bella Sacra Famiglia firmata e datata 1639, conservata a Piacenza presso la Fondazione Gozzola. Questa sarebbe una tra la prime prove del Miradori giunto ormai in terra cremonese. La famigliarità dell’opera viene enfatizzata anche dalla presenza, sulla sinistra del dipinto in primo piano, di una coppia di conigli che secondo alcuni studiosi sarebbero una precisa citazione di un’incisione di Albert Durer.
È sicuramente un’opera giovanile Il San Sebastiano curato da Sant’Irene, proveniente da Genova, che risente fortemente della lezione di Caravaggio, mediata forse da Orazio Gentileschi e Simon Vouet che avevano soggiornato a Genova nei primi anni del terzo decennio del XVII secolo. Come sostiene Mina Gregori, il dipinto di Genovesino sembrerebbe derivare da quello di medesimo soggetto eseguito da un caravaggista nordico da identificare con Matthias Stomer. Secondo lo storico dell’arte Alessandro Morandotti, il dipinto sarebbe da ascrivere tra le prime prove pittoriche del Miradori eseguite nella città della lanterna. Un’altra precoce prova del pittore è il Martirio di Sant’Alessandro (non presente alla mostra cremonese ma attualmente visibile a Milano presso le Gallerie d’Italia alla mostra L’Ultimo Caravaggio, eredi e nuovi maestri) in collezione privata, che richiama stilisticamente le opere di Tanzio Da Varallo e le migliori prove coloristiche di Domenico Fetti. Influenze genovesiane penso che si possano cogliere in una pala raffigurante il Martirio di San Sebastiano, conservata nell’omonimo oratorio di Vercelli e dipinta da Francesco Bianco tra il 1631 e il 1633. Nel Martirio di San Sebastiano colgo una meditazione sulle opere di Tanzio da Varallo e un senso coloristico, a mio parere, comuni al Martirio di Sant’Alessandro del Genovesino, senza tralasciare una certa affinità stilistica tra alcune figure “alla spagnola” delle due rispettive scene. Non sono noti documenti che legano questi due pittori in area piemontese, se non fosse per la presenza del San Girolamo nel deserto del Miradori (presente in mostra), proveniente dalla chiesa della Santissima Annunziata di Vercelli e conservato presso il Museo Borgogna di Vercelli, datato tra il 1646 e il 1650. Forse ciò che accumuna questi due dipinti è solamente una suggestione, un retaggio culturale e stilistico tipico del tempo, ma tuttavia ho deciso, in questa sede, di farne menzione.
Un’altra opera ancora legata ai nebulosi anni giovanili del Miradori è il Sacrificio di Isacco, proveniente da Londra (collezione Colnaghi) e forse un tempo appartenuta al governatore spagnolo della città Don Alvaro De Quinones. L’opera, attribuita al Genovesino da Lino Moretti, risentirebbe dell’influenza di Bernardo Strozzi, di Gioacchino Asserto e delle delicatezze di Orazio Gentileschi. Il dipinto fu probabilmente eseguito durante gli anni di permanenza del pittore a Piacenza poiché stringenti similitudini sono state riscontrate nel San Sebastiano di Bartolomeo Schedoni, dipinto per i cappuccini di Fontevivo e lasciato incompiuto dopo la morte dell’artista. In questa versione del sacrificio di Isacco l’uso del colore è sapientemente utilizzato: i toni usati sono quelli del rosso brillante e del bianco prezioso che rendono la composizione estremamente plastica e vibrante. Del soggetto esistono altre due versioni; la prima è quella conservata nella collezione Stanley Ross a New York di poco successiva a quella appena menzionata; mentre la seconda versione (presente in mostra) è quella del Figg Art Museum di Davenport che presenta affinità stilistiche con la Presentazione della Vergine al Tempio di San Marcellino sopra citata. In quest’ultima versione è accentuata la ricerca atmosferica attraverso un cromatismo raffinato e abbassato nei toni, che in alcuni punti tende a confondersi con il monocromo.
Sempre agli anni giovanili dell’artista spetterebbe la Suonatrice di liuto conservata a Palazzo Rosso a Genova. L’opera, attribuita da Longhi a Orazio Gentileschi, è stata poi restituita, sempre dallo stesso storico dell’arte, a Genovesino in occasione della mostra di Caravaggio e dei caravaggeschi del 1951. Il tema del dipinto è un chiaro riferimento alla Vanitas, composizioni di nature morte molto diffuse nel XVII secolo (specie in area fiamminga), care anche allo stesso Caravaggio che ne dà una straordinaria interpretazione nel Canestro di frutta dell’Ambrosiana. L’opera del Miradori è stata realizzata verosimilmente a Cremona tra il quarto e il quinto decennio del 1600.
L’ultima opera che vorrei menzionare prima di passare alle conclusioni è il Riposo durante la fuga in Egitto, una delle ultime prove del Miradori, realizzata per la cappella di San Giuseppe nella chiesa di Sant’Imerio a Cremona, oggi sistemata nelle terza cappella a destra del medesimo edificio. L’opera è uno dei capolavori indiscussi di questo artista. Il dipinto ha in se le due anime di Genovesino: da una parte sta il gruppo in primo piano reso attraverso una concezione ancora realista e quindi caravaggesca delle figure, dove la Vergine e il Bambino che tiene in grembo è una chiara prefigurazione alla pietà; dall’altra, sullo sfondo, il tocco della pennellata diventa assolutamente barocco, violento, arrovellato su se stesso e teatrale nella sua tragicità. Angioletti svolazzanti stanno sopra la scena principale mentre alcuni frugano tra le rovine di un tempio, allusivo alla caduta degli idoli pagani e al trionfo di Cristo. Un angioletto porta datteri alla Vergine, mentre un altro sta rifocillando l’asino stanco e, mentre svolge diligentemente il suo compito, volge lo sguardo all’osservatore: è uno sguardo in parte malinconico, in parte ironico, uno sguardo che sembra far trapelare un destino già scritto, un destino già visto. Incantevole è poi l’angioletto che sta dietro a San Pietro e che, spiegando le sue coloratissime ali, cerca di proteggere la sacra famiglia dalla scena che sta avvenendo alle loro spalle. La strage degli innocenti che sta avvenendo contemporaneamente alla scena in primo piano è un momento di pura brutalità, accentuato ancora di più dal corpo di un fanciullo scaraventato nel vuoto. Gli innumerevoli personaggi sono resi con colpi veloci di colore senza badare troppo ai particolari; mai nella storia dell’arte si era visto un così feroce ed efferato delitto. Tuttavia il tono della rappresentazione è sommesso, quasi sospeso e pieno di malinconia, in parte per quello che i protagonisti sanno che sta avvenendo nel loro presente (e alle loro spalle), un po’ per quello che noi sappiamo che accadrà. In questo senso Genovesino interpreta bene gli ideali più alti della pittura barocca.
La mostra mi sembra ben concepita, le ricerche fatte sulle opere ritengo abbiano portato ad inquadrare meglio la figura di questo pittore ancora poco conosciuta al grande pubblico e forse anche tra gli storici dell’arte. Certamente c’è bisogno di ulteriori ricerche e indagini sul territorio per chiarire definitivamente ancora i numerosi interrogativi che sono senza risposta. L’esposizione è concepita in maniera cronologica, fatta eccezione per alcune sezioni tematiche, come quella dedicata alle pitture di genere e quella sulle meditazioni della vanitas. L’allestimento, inserito nelle sale del museo civico Ala Ponzone, non disturba più di tanto la normale visita della pinacoteca, visto anche che diversi dipinti di Genovesino presenti alla mostra si conservano già abitualmente nel museo e il visitatore può goderne nella normale visita. L’illuminazione lascia un po’ a desiderare in quanto, su numerose opere, la luce si rifrange creando disturbanti effetti visivi e non permette la chiara fruizione dei dipinti. La mostra non ha un’audioguida che segue il visitatore alla scoperta delle opere, ma i pannelli di sala presenti ad ogni sezione della mostra rimediano in maniera chiara ed esaustiva; forse alcuni sono un po’ troppo prolissi ma mai noiosi. Il catalogo, non eccessivamente corposo ne costoso (25 euro in mostra) edito da Officina Libraria, rende conto di tutte le novità emerse durante le ricerche sull’artista ed è decisamente ben fatto: dall’impaginazione alla grafica, dalla cura dei testi a quella delle schede, dalla bibliografia fino all’indice dei nomi. Insomma questa prima esposizione monografica su Luigi Miradori detto il Genovesino merita di essere vista e studiata con attenzione poiché si tratta, senza alcun dubbio, di un pittore che ha fatto grande la pittura dell’età barocca a Cremona.
Marco Audisio
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