“Io l’ho conosciuto che ero un ragazzino e mi ricordo proprio che quando l’ho conosciuto aveva preso da pochi anni a dipingere, si sentiva addosso (oggi sembrerebbe romantico, ma vero) il demone della pittura; andava a lavorare in banca, ma dietro a quelle mura si sentiva prigioniero, legato; aveva un altro bisogno, aveva un’altra necessità, lavorava molto alacremente facendo la fame, e lo posso testimoniare perché molte volte è venuto a mangiare a casa mia, faceva la fame”.
Attraverso queste parole, pronunciate davanti ai ragazzi delle scuole superiori di Busto Arsizio nel 1978, Giovanni Testori (Novate Milanese, 1923 – Milano, 1993) ripercorreva il primo incontro con l’artista informale Ennio Morlotti (Lecco, 1910 – Milano, 1992), con il quale, a partire dagli anni Quaranta, aveva avviato un solido rapporto di collaborazione e amicizia.
Le parole dell’intellettuale, nella loro immediatezza, non solo ci permettono di comprendere quanto stretto fosse il legame che intercorreva fra i due, ma delineano in modo puntuale i primi anni della vita e della lunga carriera di Morlotti. Quest’ultimo era nato a Lecco nel 1910 ed aveva avuto – come si può intuire da quanto racconta lo stesso Testori – una biografia artistica insolita: fino a ventisei anni, infatti, aveva lavorato come operaio e contabile, coltivando la propria passione per la pittura solo nel tempo libero, da autodidatta. Sentendosi tuttavia prigioniero della vita da ufficio, nel 1936 aveva deciso di abbandonare il lavoro, per dedicare le proprie energie al perseguimento della sua passione per l’arte. Non senza notevoli difficoltà economiche, si era quindi iscritto all’Istituto d’arte di Brera a Milano e, una volta ottenuta la maturità, aveva frequentato per due anni l’Accademia di belle arti di Firenze.
![Figura 1[2993].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/07/figura-12993.jpg?w=736)
Il debutto nell’ambiente culturale milanese, in particolare all’interno del Gruppo di Corrente, si situa intorno agli anni Quaranta e, grazie ad esso, l’artista inizia a stringere i primi legami con il giovanissimo Testori, neanche ventenne. I due, insieme ad altri, fra i quali ricordiamo Emilio Vedova (Venezia, 1919 –2006) e lo scultore Giuseppe Paganin (Asiago, 1913 – Milano, 1997), nel 1946 firmano il Manifesto del realismo di pittori e scultori (Oltre Guernica), documento che si inseriva nell’allora acceso dibattito fra pittura realista ed astratta, reso ancora più agguerrito dalle opposte posizioni politiche che condizionavano le due fazioni. La tendenza preponderante nel nostro paese era quella realista: il Partito comunista italiano, assai influente, si era infatti allineato al modello culturale sovietico e condannava fermamente le espressioni astratte, in favore di un tipo di arte dai risvolti sociali, chiara e comprensibile a tutti. Gli artisti firmatari del suddetto “manifesto del realismo”, tuttavia, erano intenzionati a trovare un compromesso fra le due ideologie, per conciliare le proprie tendenze politiche di sinistra con la libera e piena espressione del proprio potenziale creativo. Questi tentativi di mediazione sono chiaramente espressi nel manifesto, dove si legge:
“Realismo non vuol dire naturalismo o verismo o espressionismo, ma il reale concretizzato dell’uno, quando determina, partecipa, coincide ed equivale con il reale degli altri, quando diventa, insomma, misura comune rispetto alla realtà stessa. […] I mezzi espressivi sono dunque: linea e piano, anziché modulato e modellato; ragioni del quadro e ritmo, anziché prospettiva e spazio prospettico; colore in sé, nelle sue leggi e nelle sue prerogative, anziché tono, ambiente, atmosfera”.
Vengono delineati in poche righe i principi che costituiscono la base della cosiddetta arte “informale”, della quale Morlotti, a partire dagli anni Cinquanta, sarebbe divenuto uno dei massimi esponenti.
L’Informale era un movimento vario, di matrice internazionale, e raccoglieva al proprio interno diverse tendenze, tutte volte a superare ogni schema o legge precostituiti. La tela diveniva oggetto di gesti liberi e segni cromatici apparentemente casuali, perché ciò che si voleva valorizzare era la carica espressiva della materia pittorica. Tuttavia, gli artisti italiani non cedettero quasi mai al puro astrattismo, ma nelle loro opere si legge sempre un punto di partenza figurativo, per quanto decostruito e irriconoscibile, e ciò costituisce la fondamentale differenza con – per portare un esempio celebre – l’espressionismo astratto statunitense, che pure si colloca nella medesima corrente pittorica.
![Figura 2[2995].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/07/figura-22995.jpg?w=1356)
Morlotti si avvicina all’Informale gradualmente: il primo decennio della sua carriera è ancora caratterizzato da uno stile figurativo, che denota un interesse verso Giorgio Morandi (Bologna, 1890 –1964) e, in un secondo tempo, Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973), come si evince dall’opera Maternità, del 1946.
![Figura 3[2997].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/07/figura-32997.jpg?w=736)
Solo verso gli anni Cinquanta nel suo modo di operare comincia a rendersi evidente quella tendenza verso una pittura ormai completamente caratterizzata dalla preponderanza della materia pittorica. Secondo Testori, questo è il periodo in cui l’arte di Morlotti “subì la svolta definitiva e divenne assolutamente inimitabile, perché sua e solamente sua fin dalla minima matrice materica”. Questa fase di passaggio, nell’interpretazione di Testori, coincide non solo con l’acquisizione formale di una nuova tecnica, ma anche con un ritorno e un nuovo aderire da parte di Morlotti alle proprie radici lombarde, dopo la fase giovanile di interessamento alle vicende parigine della pittura cubista.
La metamorfosi nella pittura di Morlotti si compie in modo definitivo nel 1951, non a caso durante un periodo trascorso fra Imbersago e la vicina cittadina di Merate, in provincia di Bergamo e trova un primo riconoscimento pubblico in occasione della partecipazione da parte dell’artista alla Biennale di Venezia del 1954. L’impatto che hanno gli scenari imbersaghesi sulla sua sensibilità artistica è assai significativo, tanto che lui stesso afferma:
“Io penso che da Imbersago comincia la mia vera storia. Il lavoro dietro mi sembrò solo esercitazione scolastica (…). Da allora sparirono i tramonti, gli orizzonti, le vedute. Mi fermai ad osservare i particolari della natura (…). La realtà dietro le cose; un sottofondo e una gravità attorno: e, cosa che mai avevo avvertito, di partecipare a queste cose (…). Alla rivoluzione permanente si era sostituita la “preistoria”, la struttura, l’inconscio, l’attivismo: la realtà vera dietro la verità apparente”.
Ecco quindi che si delinea ancora una volta l’essenza della pittura informale, in questo caso secondo la personale visione di Morlotti: si tratta di svelare la realtà più intima, quella che si può trovare solo risalendo al nucleo della realtà materiale che ci circonda e non nell’apparenza. A questo proposito, Testori racconta che Morlotti era solito immedesimarsi in modo così totale nella Natura che sarebbe stato ben felice di divenire erba o pietra e che lo stesso Giorgio Morandi, in occasione di un incontro avvenuto presso la casa di Roberto Longhi (Alba, 1890 – Firenze, 1970) a Firenze, aveva osservato scherzosamente che l’artista era in grado di immergersi nel paesaggio “come una gallina”.
Ciò si traduce inizialmente in una serie di importanti cicli di opere aventi per soggetto il tratto che si snoda intorno al fiume Adda ad Imbersago, ma un discorso analogo vale per tutte le opere del decennio riguardanti la natura, la cui anima è riassunta magistralmente da Testori con le seguenti parole:
“Vibrazioni e serpeggiar d’oscuri sensi, che son dall’interno, della natura, cioè come non appare; accendersi e spegnersi di riflessi e di luci, che son dall’esterno, della natura, cioè come appare, si ricongiungono in questi paesaggi…”.
![Figura 4[2996].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/07/figura-42996.jpg?w=736)
Verso la fine degli anni Cinquanta, in concomitanza con il trasferimento a Bordighera, in Liguria, tornano nella pittura di Morlotti elementi figurativi più chiaramente riconoscibili. Soggetto prediletto è sempre il dato paesaggistico, in questo caso costituito soprattutto da piante di ulivi e di cactus, in omaggio alla terra che in quel momento ospita l’artista.
![Figura 5[2998].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/07/figura-52998.jpg?w=736)
Con il sorgere degli anni Settanta ha inizio uno dei cicli più significativi della produzione di Morlotti: quello dei Teschi, attraverso i quali l’artista, soprattutto per quanto riguarda il modo di trattare la materia pittorica, si confronta con Paul Cézanne (Aix-en-Provence, 1839 – Aix-en-Provence, 1906), considerato da lui una primaria fonte di ispirazione sin dal viaggio giovanile a Parigi del 1937, in occasione del quale aveva avuto modo di ammirare e studiare le opere del grande maestro francese.
Testori individua la genesi di questa produzione in una fase precedente, quella dedicata alla serie dei Bucrani, eseguita fra il 1942 e il 1946: osserviamo, in questo caso, un primo, drammatico avvicinamento al tema dello scheletro. Tuttavia, tali oggetti, apparentemente inutili, divengono nelle opere di Morlotti assolutamente indispensabili alla vita della vegetazione – muschi e licheni – che vi cresce sopra e acquisiscono dunque un valore quasi sacro.
Anche i Teschi, secondo Testori, possono essere interpretati positivamente, nel loro istituire un legame, quasi paradossale, con la vita:
“Meditando sul teschio, non è la morte che vince, ma è proprio il trasformarsi dell’uomo in concime, cioè in nuova vita, in nuova primavera”.
Occorre tuttavia puntualizzare come, in questo caso, l’interpretazione di Testori fosse fin troppo personale e un poco forzata, disgiunta da quanto affermava invece lo stesso Morlotti, a tal proposito assai più pessimista:
“…Ho fatto dei Teschi in commemorazione dei miei amici […] E ho visto che spogliavo la realtà di questa linfa, di questa vegetazione, non so, di questa carne che vive, e così sono arrivato sia ai Teschi che alle Rocce”.
![Figura 6[2999].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/07/figura-62999.jpg?w=736)
Cézanne torna in modo decisivo nella produzione dell’artista verso la metà degli anni Ottanta, quando Morlotti, giunto nella fase più matura della sua carriera, si dedica all’ultima serie significativa, quella delle Bagnanti, definite da Testori “la seconda, implacata ossessione morlottiana”, laddove la prima “ossessione” era stata la Natura. Secondo l’intellettuale, le Bagnanti costituiscono uno dei sommi vertici della produzione di Morlotti: innanzitutto, esse sono da annoverare fra gli omaggi più autentici mai tributati a Cézanne, la cui pittura viene interpretata non nella sua accezione rivoluzionaria e progressista, ma come un vero ritorno al nucleo originario della realtà, spogliata delle apparenze. In secondo luogo, le Bagnanti di Morlotti sembrano quasi confondersi con il paesaggio che le circonda, alle quali sono accomunate anche dalle tinte terrose, nei toni dell’ocra, del verde e del marrone, nonché dalla stessa consistenza materica. La suddivisione o la gerarchizzazione della realtà, il distinguere fra dimensione naturale e umana perdono quindi di significato, perché tutto partecipa alla stessa, immensa vicenda e tutto è accomunato dalla materia: come osservava Testori, tutto concorre a “realizzare quel vasto, unico inno alla natura intesa come madre, come grembo originario e originante”.
Morlotti si spense a Milano nel 1992; Testori, in un commovente articolo a lui dedicato nelle pagine del “Corriere della Sera”, ripercorse, come aveva fatto nel 1978, la vita e la carriera dell’amico, ponendo l’accento sulla sua “lombardità”, sull’unicità della sua ricerca pittorica e sui numerosi sacrifici fatti in giovinezza per raggiungere un risultato da lui definito “miracoloso”:
“Queste cose – scrisse, riferendosi alle opere dell’artista – non si copiano, ne’ si ripetono; sono nel sangue, nelle ossa e nella carne di chi si sente dannato (e, insieme, salvato) a vivere la pittura come se fosse la continuazione dei suoi campi, dei suoi prati, delle sue rocce e, soprattutto, la continuazione infinita di lei, la nostra cara, povera, esule carne”.
Chiara Franchi
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