«Ama ciò a cui ritorni»
Erano tante le voci che giravano sull’ultimo libro di Hisham Matar (1970), e devo ammettere che l’aspettativa nel leggerlo cresceva giorno dopo giorno. Speravo davvero tanto che quelle voci e recensioni così positive che avevo letto su internet e quell’aspettativa non venissero, come spesso accade, clamorosamente tradite e disilluse: questa volta, per fortuna non è andata così.

Un punto di approdo è un libro piccolo, si legge tutto d’un fiato, arriva a mala pena a 113 pagine, è edito da Einaudi (supercoralli) e costa 16,00 euro: soldi ben spesi. L’edizione italiana del libro di Matar (premio Pulitzer nel 2017 per la migliore autobiografia dal titolo Il Ritorno) è tradotta da Anna Nadotti. Non saprei dire con certezza di che genere di libro si tratti, non è in effetti incasellabile in una categoria letteraria ben precisa. Non è un romanzo, un’autobiografia, un racconto breve stretto senso, un libro di storia dell’arte, forse è tutte e quattro queste cose insieme, forse nessuna di queste. È qualcosa di strano, che ti fa riflettere sulla vita, sullo scorrere del tempo: ecco è un libro sulla vita e sulla sensibilità di come si percepisce la realtà che ci circonda. È un libro sulla vita che scorre, sulle cose, sull’arte, sull’amore, sulla bellezza, sulle persone, sui rapporti umani con gli altri, sull’essere consapevoli del proprio corpo e delle proprie emozioni; è un libro che parla anche di morte, anzi forse soprattutto di morte. E mai la riflessione che fa Matar della morte e sulla morte è stata più attuale come in questo momento storico che stiamo attraversando e vivendo.

Il libro ha diversi protagonisti, il primo è proprio il suo autore, ma insieme a lui fa da protagonista anche la città di Siena. La descrizione che Matar intesse, in alcuni punti del libro, della città mi ha ricordato per certi versi le Città Invisibili di Calvino. Siena prende forma nelle parole dello scrittore così come si presenta ai suoi occhi. Matar riesce a evocare con le parole le immagini che gli si scorgono davanti man mano che prende consapevolezza dei luoghi in cui è immerso e in cui sta soggiornando. Non è una narrazione descrittiva quanto piuttosto evocativa. Sono pochi i luoghi concreti che descrive come musei e monumenti. I luoghi sono filtrati dalla personale e del tutto peculiare sensibilità del suo protagonista che in questo caso coincide con lo scrittore stesso. Emozionante la narrazione e quindi la descrizione del cimitero della città e della panchina, un po’ occultata alla vista, dove Hisham può sedersi in solitudine a meditare e a riflettere sul senso della morte, ma da dove può anche ammirare un panorama che nessuna altra posizione gli avrebbe potuto fornire. Riflessione sulla morte che trova il suo culmine nell’illuminata analisi sul significato del dolore durante la peste nera del 1348, una riflessione e un meditare che oggi suonano quasi come un monito e che dovrebbero far riflettere ogni essere umano. Una scrittura poetica e consapevole, scorrevole e mai banale. Un’altra protagonista del libro è Diana, sua moglie a cui lo scrittore ha dedicato il libro. Dalle pagine di Un punto di approdo si capisce che l’amore che prova per Diana è qualcosa che non si riesce a spiegare con le parole, solo leggendo le sue di parole si può avere una pallida impressione del sentimento che Matar prova nei confronti di Diana. Il suo è un amore genuino e pienamente consapevole, è un sentimento che porta con sé gli anni della maturità e della presa di coscienza di sé. C’è una frase che mi ha molto colpito, ed è quella pronunciata da Hisham sull’aereo che lo stava portando in toscana. Durante una turbolenza con tono ironico Matar dice che non ha paura della morte, tuttavia sarebbe un peccato se morisse in quel momento, specie dopo che aveva fatto così tanta fatica a imparare a vivere. Un punto di approdo è un libro che ti lascia diverse sensazioni, alcune positive, altre velate da una leggera malinconia e non riesco a capire fino in fondo se tale malinconia sia dovuta a una precisa intenzione dello scrittore oppure se sia insita nel lettore che ha appena terminato la lettura del suo libro (il sottoscritto in questo caso). Ci ho pensato a lungo, e anche ora che sto scrivendo queste brevi note, non sono ancora riuscito a capirlo bene.

Altra protagonista del libro è la pittura senese del due e trecento. Quella di Duccio di Buoninsegna, ma anche quella di Pietro e Ambrogio Lorenzetti e di Giovanni di Paolo. La conoscenza di questi argomenti ha come prerequisito essenziale uno studio attento, maturato dall’autore sui quadri della National Gallery di Londra. La descrizione che Matar fa delle opere presuppone un’intima conoscenza di quei fragilissimi pezzi di legno e di quelle larve di affreschi. Il tempo è passato e le ha irrimediabilmente segnate, il segno del tempo tuttavia non è un disvalore, se mai è conseguenza della consapevolezza del passare del tempo. L’osservazione quasi ossessiva per ore e ore dei dipinti conservati alla National Gallery ha fatto nascere l’urgenza a Hisham di approfondire la sua relazione con le opere e di conoscerne di nuove, quelle opere che stavano in Italia, a Siena. Voleva andarle a vedere di persona, dal vero, conscio che solo la visione diretta e personale del manufatto artistico ti può lasciare qualcosa di concreto, forse la vera e intima conoscenza del corpo dell’opera genera la sua profonda conoscenza. Vedere e rivedere, così dicono gli storici dell’arte. Sotto questo punto di vista, Matar ragiona proprio come un vero storico dell’arte. La visione di un dipinto su uno schermo di computer è fuorviata da tanti aspetti e ne produce irrimediabilmente la falsificazione e l’obsolescenza, e di ciò l’autore ne è pienamente consapevole.

L’incomunicabilità è un altro fattore che è presente nel libro. Una domanda su tutte muove per certi versi il libro: può un essere umano vedere allo stesso tempo e dallo stesso punto di vista la stessa cosa che vede un altro essere umano? E può quello stesso essere umano provare le stesse sensazioni che provo io mentre sto guardando un quadro o un paesaggio? È una domanda a cui tuttavia non c’è una risposta unica o univoca, ci sono se mai diversi modi con cui provare a rispondere e parte del libro prova a fare anche questo. Credo che per Matar questo interrogativo sia un suo personalissimo punto di approdo a cui aspirare e che corre come un filo rosso per tutto il libro.
«Ho una prospettiva talmente bella, – aveva detto Diana all’improvviso. Io avevo continuato a guardare le fronde dell’albero che si allungavano sopra di noi, nascondendo il cielo. Non volevo essere distratto dalla mia visione o cercare di immaginarne un’altra. E poi, era impossibile conoscere la sua, vedere esattamente ciò che lei vedeva. Sarebbe stato comunque un’approssimazione. Andavo ripensando a una recente conversazione con un vecchio amico, a Tripoli, dove Diana e io avevamo trascorso qualche giorno prima di venire a Roma, su come “il desiderio, il suo permanere, dipenda dalla bramosia, dalla voglia insoddisfatta, dall’appetito frustrato”. […] “Il desiderio, – aveva continuato il mio amico – si spegne non appena raggiunge il suo scopo. Ciò che mantiene viva la nostra passione per qualcuno o qualcosa è la speranza del successo. In altre parole […] c’è una contraddizione fra ciò a cui il desiderio mira, la vittoria assoluta, e ciò di cui ha bisogno per durare: il mistero, l’inconoscibile. Il desiderio è un animale che si mantiene in forma solo se denutrito. In termini evoluzionistici, il fallimento è il suo prerequisito, la frustrazione ciò che lo alimenta”. Nonostante la logica stringente, la tesi del mio amico non mi convinceva, ma il suo entusiasmo e l’estremismo delle sue teorizzazioni mi divertivano troppo per farci caso».
Tuttavia per Matar il suo punto di approdo (concreto, chiamiamolo così) è il palazzo comunale di Siena dove troneggiano gli incredibili affreschi di Ambrogio Lorenzetti. L’intento dichiarato era proprio quello di andare a Siena per vedere l’Allegoria del Buono e del Cattivo governo, uno tra i più importanti cicli di affreschi profani di forte carattere civile della prima metà del 1300. Il suo occhio si sofferma a lungo sul corteo di civili che sta sfilando davanti alla figura allegorica del Bene Comune nella Sala dei Nove, e in particolar modo su un personaggio che sembra non essere in linea con tutti gli altri. Si tratta di un giovane uomo dalla pelle olivastra e quindi più scura rispetto a tutti gli altri, vestito con una tunica corta dal tessuto fantasia e dalle gambe scoperte fino alle ginocchia, e dalla cui tasca esce un sacchetto si stoffa rossa. Matar presuppone che si possa trattare, a ragione, di un esponente di una nobile famiglia senese di origini arabe. Sul loro stemma figurava l’emblema di una testa di moro. Per quell’epoca, certo, era una rarità ma come afferma Matar ben presto divenne una consuetudine nelle famiglie nobili il cui lignaggio risaliva alla Spagna Musulmana presenziare alle adunanze pubbliche. Quell’uomo è dunque un’esponente della famiglia dei Saracini, poiché è così che gli italiani chiamavano gli arabi discendenti dalla Spagna musulmana. L’indagine di Matar sui dipinti della scuola senese è assolutamente genuina e precisa, sa cogliere infatti ogni aspetto legato alla spiritualità delle opere come pochi sono in grado di fare. Ciò che colpisce ancora di più è il suo immenso apprezzamento e la sua profonda comprensione per quelle opere cristiane essendo però lui musulmano. Hisham è infatti di origini libiche, un paese da cui la sua famiglia fu costretta a scappare e a rifugiarsi a New York dove Matar è nato. In seguito è cresciuto fra Tripoli, il Cairo e Londra, ed è proprio in questa città che ha iniziato la sua intima conoscenza dell’arte senese, arte la cui difficoltà di decifrazione è ben manifesta all’inizio del libro. A pensarci e rifletterci un momento, l’arte senese così come i suoi maggiori esponenti rappresenta effettivamente un linguaggio non così semplice e immediato da capire e da decifrare nemmeno per chi lo storico dell’arte lo fa di mestiere; ed è per questo che il libro è ancor più straordinario. Le architetture e i personaggi che animano le opere di Duccio sembrano appartenere a universi paralleli ma disgiunti, tenuti insieme dal pennello e dal genio dell’artista.

Passare una soglia, attraversare una porta è la grande metafora che muove il libro. Raggiungere una consapevolezza maggiore di noi stessi, dei luoghi che frequentiamo, delle persone che conosciamo e amiamo, delle opere d’arte che studiamo. Per Matar la soglia è rappresentata dalla porta presente nella Guarigione del cieco di Duccio alla National Gallery che diventa la porta attraverso la quale entra a Siena la prima notte, sotto la pioggia, ma è anche la soglia della sua consapevolezza. Una consapevolezza che viene dal girovagare senza meta per le viuzze di Siena, nell’andare quasi quotidianamente al museo per conoscere le opere che aveva visto solo attraverso uno schermo e fermarsi a meditare e rimeditare su quegli oggetti, così diversi dalla sua religione eppure così intimamente connessi con la sua sensibilità, per cui non deve esserci necessariamente un’affinità religiosa bensì è sufficiente un’affinità di spirito.

Protagonisti del libro di Matar sono, ovviamente anche le persone, gente comune che l’autore incontra girovagando per la città; alcune sono conoscenze brevi come la giovane donna nigeriana, altre più durature. Penso alle custodi del museo, ma soprattutto all’incontro di Hisham con Adam e la sua famiglia originaria della Giordania. L’amicizia è dunque un altro aspetto del libro.

Sono moltissime le riflessioni che vengono fatte nel testo di Matar ma credo di aver già detto molto. Mi si permetta di aggiungere che mai prima d’ora ho incontrato una così puntuale analisi, con interessantissimi risvolti psicologici del Davide con la testa di Golia del Caravaggio della Galleria Borghese a Roma, così come mai prima d’ora mi si era offerta l’opportunità di dare una lettura così aderente al testo narrativo della scena di Poussin raffigurante il Trionfo di Davide della Dulwich Picture Gallery di Londra, o della Madonna dei francescani di Duccio o ancora della Madonna del latte di Ambrogio Lorenzetti e dell’Angelo annunciante di Sano di Pietro. Quest’ultima che non avevo mai considerato molto, prima della lettura del libro, «ora mi sembra qualcosa di molto familiare, non so perché, – sono parole di Matar ma che rispecchiano perfettamente anche il mio pensiero – ma più guardavo l’angelo annunciante più forte sentivo un dolore nel petto, come se anelassi a una persona specifica, un luogo o un tempo svaniti per sempre». Se penso alle parole di Hisham solo una persona mi viene in mente e mille sono le sensazioni che sento e mi sembra un miracolo che solo la poesia, la letteratura e l’arte possono darci.

Il libro termina con la descrizione di un’opera, il Paradiso (1445) di Giovanni di Paolo oggi conservato al Metropolitan Museum di New York. Si tratta di una piccola tavola realizzata a tempera e oro in cui il pittore immagina il ricongiungimento nell’aldilà. Continua Matar:
«secondo l’artista, tale ricongiungimento avverrebbe a coppie, con ogni convenuto in piedi di fronte all’altro a stringergli le mani. Le coppie sono disposte in una sorta di valzer su tre piani orizzontali […] All’estremità superiore del dipinto si intravede l’orizzonte, che innocentemente curva, e un filare di alberi di melo che schermano il cielo. Sono appesantiti dai frutti. Ora che il cerchio si è chiuso, sembra dire il dipinto, mangiate le mele non solo è permesso ma anche incoraggiato. Come sarà per i defunti rammentare i vivi, mi sono chiesto, essere capaci di riconoscere coloro che conoscevamo quando l’anima era carne? Ai santi danno il benvenuto gli angeli; ecclesiastico anche il ricongiungimento. Poi ci sono uomini e donne, come i coniugi sepolti insieme nel cimitero di Siena, che si stringono le mani guardandosi negli occhi. Si è così che dev’essere, pensavo tra me, abbracciare chi si ama di più e guardalo negli occhi a lungo, o forse per l’eternità. […] Soltanto una coppia, una suora e un frate nell’angolo in basso a destra, è accompagnata da una terza persona, una suora più giovane che sembra trattenere la più anziana. Le stringe le braccia intorno al busto come se volesse impedirle di avvicinarsi al frate. Che siano Eloisa e Abelardo, gli amanti che potevano amarsi solo da lontano? […] Non dubitavo che il pittore ne avesse letto le lettere e conoscesse la disperata invettiva di Abelardo contro la scrittura, che accusava di essere una “malattia”. Eloisa, per parte sua, non badava alle trasgressioni. Ciò che a lei interessava, invece erano presenza e assenza. E se i ritratti degli amici lontani ci sono cari, – gli scrive, citando la lettera di Seneca a Lucillo – perché ce li ricordano e ci consolano nella loro lontananza, quanto piacere possono farci le lettere che ci portano la vera voce di un amico lontano? E la sua meravigliosa bramosia quando gli dice: “ti scongiuriamo di tenerci informate, almeno per lettera, delle tempeste che ancora ti investono”. Dev’essere senz’altro questo l’obbiettivo di ogni ricongiungimento, non solo identificare ed essere identificati, ma anche avere un accurato resoconto di tutto quello che è accaduto dopo l’ultimo incontro. Ciò significa che dietro il desiderio e la nostalgia c’è proprio il bisogno di essere tenuti presenti. Si direbbe che Giovanni di Paolo stia pensando che il vero inferno non sono le fiamme bensì il non essere riconosciuti da coloro che ci sono più vicini. Vogliamo che ci vedano e, a nostra volta, scoprire quanto siamo capaci di ricordare, trovando infine quel conforto che sta fra intenzione ed espressione, fra il sentimento nascosto e la sua forma manifesta. Questo il quadro lo sa. Sa che il nostro maggiore desiderio è essere riconosciuti, per fino più di quanto desideriamo il paradiso; che indipendentemente da quanto il tempo ci ha trasformati e trasfigurati, qualcosa di noi deve sussistere e restare percepibile a coloro che abbiamo passato tanto tempo ad amare. Forse l’intera storia dell’arte è il dispiegarsi di tale aspirazione; forse ogni libro, quadro o sinfonia è il tentativo di fornire un resoconto fedele di tutto ciò che ci riguarda».

Per noi che leggiamo, il nostro punto di approdo è arrivare a metterci, forse, nella stessa ottica di Hisham Matar e guardare le cose come lui le guarda, con il suo punto di vista, non per avere lo stesso punto di vista, ma per conoscere il suo profondo sentire, arrivando a percepire il senso del suo viaggio. Un libro deve più che altro lasciarti delle sensazioni e questo ne lascia parecchie.
Ho letto questo libro in un momento di passaggio da una fase della mia vita a un’altra, al pari di altri che come quest’ultimo, hanno in seguito segnato profondamente la mia vita: dalle Città invisibili di Calvino al Peso della farfalla di Erri De Luca, dalle Notti Bianche di Dostoevskij, all’Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, dal Giardino del Profeta di Gibran, alla Metamorfosi di Kafka. Tutti mi hanno lasciato qualcosa, un segno come quando si fa l’amore per davvero (così diceva, parafrasando Giovanni Testori), quando è logico che si riceva un segno, che non è come se nulla fosse stato.
Al pari di quei capolavori appena citati, Un punto di approdo è sicuramente tra i libri più interessanti e diciamocelo pure, tra i più belli che io abbia mai letto.
Marco Audisio
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