In uno dei nostri precedenti articoli abbiamo raccontato di come, con l’avvento delle Avanguardie storiche, nei primi anni del Novecento, il confine secolare tra arte e vita, quotidianità e cultura elevata andò sempre più assottigliandosi, anche grazie alla diffusione di nuove tecniche artistiche, come il collage o i papiers collés. Questi procedimenti creativi, infatti, prevedevano una vera e propria giustapposizione, sia concettuale che fisica, di ritagli o frammenti dei materiali più disparati – fogli di giornale, illustrazioni, brandelli di stoffa o legno – e la tradizionale superficie dipinta della tela, che assumeva così una connotazione materica quasi tridimensionale, proiettata verso il mondo reale.
Parallelamente, sempre negli ambienti dada e surrealista, dove collage e fotomontaggio avevano trovato un florido terreno di sviluppo, si stava delineando una tendenza analoga, che avrebbe estremizzato quella connessione ormai instauratasi tra opere d’arte e realtà e che avrebbe determinato uno storico impatto sulle vicende dei decenni successivi, i cui effetti sono giunti ben oltre la metà del Novecento e sino a noi.

Il principio di questa rivoluzione culturale si situa nel 1913, quando Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968), figura chiave dell’arte del XX secolo, realizzò l’opera Ruota di bicicletta. Questo manufatto non si ascriveva a nessuno dei generi artistici tradizionali: si trattava di una vera ruota di bicicletta, innestata, attraverso una forcella, in uno sgabello, appositamente forato. In questo modo, due oggetti appartenenti alla vita quotidiana venivano privati della loro funzione utilitaristica per essere assemblati, secondo un criterio apparentemente privo di logica, in una nuova creazione, che aveva l’unico scopo di essere ammirata, al pari di una scultura tradizionale. Veniva definitivamente meno il concetto, già messo ampiamente in discussione dalle avanguardie, di arte come rappresentazione della realtà, poiché il confine tra le due dimensioni non esisteva più.
Sebbene Ruota di bicicletta non fosse stata realizzata per essere esposta pubblicamente, ma per decorare lo studio dell’artista, questo fu il passo che gettò le basi per il successivo sviluppo di una nuova pratica che lo stesso Duchamp, nel 1915, avrebbe definito ready-made, espressione inglese traducibile come “già pronto”, “già fatto”.
L’essenza del ready-made consisteva nello scegliere oggetti comuni, privi di valore artistico o estetico, per isolarli dal loro contesto abituale ed esporli al pubblico in un ambiente a destinazione culturale, come una galleria o un’esposizione. Grazie all’intervento dell’artista, il manufatto, estratto dalla realtà e privato della sua funzione pratica, veniva così elevato al rango di opera d’arte.
Si trattava di un gesto in pieno spirito dada, dai risvolti chiaramente provocatori, che intendeva tuttavia dare luogo ad una riflessione, per nulla scontata, sui rapporti che intercorrono tra tradizione e contemporaneità e sui nessi tra il ruolo – e il potere – degli artisti, la società e il panorama culturale, nonché proporre una sottile critica al gusto conservatore che dominava il collezionismo.
Sulla scia di queste considerazioni, nel 1914 Duchamp realizzò Scolabottiglie, un ready-made nel senso più puro del termine: in questo caso, a differenza di Ruota di bicicletta, l’intervento dell’artista veniva ridotto al minimo indispensabile e consisteva semplicemente nell’apporre la propria firma sulla base dell’oggetto, uno scolabottiglie in metallo.

Gli stessi presupposti condussero quindi alla realizzazione di Fountain, probabilmente il ready-made più celebre mai realizzato, oggi considerato uno dei capisaldi dell’arte del Novecento.
Esposta al pubblico nel 1917, l’opera destò accese critiche, a partire dalla scelta stessa dell’oggetto, un orinatoio semplicemente capovolto e firmato con lo pseudonimo “R. Mutt”.
Attribuito ufficialmente alla mano di Duchamp, che effettivamente lo presentò alla Society of Independent Artists di New York, di cui era uno dei fondatori, la reale origine di Fountain è stata recentemente discussa: alcuni critici riconducono l’idea dell’opera all’artista, performer e poetessa dada Elsa von Freytag-Loringhoven (Swinemünde, 1874 – Parigi, 1927). Lo stesso Duchamp, nel 1917, scriveva in una lettera che l’orinatoio gli fosse stato inviato da un’amica, la cui identità, tuttavia, non è mai stata accertata, così come rimane ambiguo il reale significato dell’affermazione dell’artista. Le rocambolesche vicende a cui andò sin da subito incontro l’opera rendono ancora più complicato stabilire con sicurezza la genesi dell’opera: l’esemplare originale di Fountain andò infatti distrutto dopo la prima esposizione ed è giunta a noi solo una fotografia, scattata da Alfred Stieglitz. Esistono ad oggi sedici repliche del ready-made, realizzate tuttavia da Duchamp solo fra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Al di là della volontà di stupire e scandalizzare, in ogni caso, sono molteplici i significati e i rimandi simbolici che sottendono sia la scelta stessa dell’orinatoio che lo pseudonimo utilizzato per firmarlo: entrambi gli elementi sono stati oggetto, nel corso degli anni, di svariate interpretazioni da parte della critica.

L’ipotesi di un intervento in Fountain di Elsa von Freytag-Loringhoven, nota anche come Baronessa Elsa, trova fondamento nella sua attiva carriera nel gruppo dada, a cui contribuì con componimenti poetici, opere d’arte e performance. Celebri sono i suoi eccentrici costumi, decorati con materiali quali posate, oggetti meccanici e di scarto, nonché gli objets trouvés, pratica analoga al ready-made, ma che aveva come soggetti di predilezione materiali spesso rinvenuti per strada. Ornamento duraturo, presentato dalla Baronessa nel 1913, ne è un esempio: l’“ornamento”, infatti, non è altro che un anello industriale arrugginito. Un altro esemplare, questa volta sotto forma di assemblage, cioè di assemblaggio di diversi elementi è costituito dal Ritratto di Marcel Duchamp (1922), ottenuto inserendo piume e altri oggetti di scarto in una coppa di vetro, in una sorta di ironico omaggio all’inventore dei ready-made.

Assai vicino a Duchamp fu anche l’americano Man Ray (Filadelfia, 1890 – Parigi, 1976), poliedrico artista e fotografo, fra i maggiori esponenti del dada e del surrealismo, che, nel 1921, presentò a Parigi l’opera Cadeau.
Esempio di ready-made “rettificato” – ossia, modificato dall’artista, analogamente a Ruota di bicicletta – Cadeau nasceva dall’unione di un ferro da stiro e alcuni chiodi, inseriti nella piastra. La contraddittorietà che caratterizza questo manufatto è ovviamente insita innanzitutto nell’impossibilità di utilizzare in modo corretto il ferro da stiro, che viene, ancora una volta, privato della sua funzione originale, ma anche nel paradosso tra l’aspetto quasi minaccioso dell’oggetto e il titolo che lo contraddistingue: Cadeau, ovvero “regalo”.
Al pari di Fountain, anche l’originale di Cadeau è andato disperso – venne rubato subito dopo la sua esposizione – e in seguito riprodotto dall’artista: ad oggi risultano esistenti 5000 copie autentiche.

Come si accennava all’inizio, la pratica del ready-made sarebbe stata destinata, pur nelle sue evoluzioni, di pari passo con le trasformazioni del panorama culturale, a divenire un motivo portante dell’arte dei decenni successivi: appartiene al 1943, ad esempio, un objet trouvé realizzato da Pablo Picasso assemblando il sellino e il manubrio di una bicicletta, trovati per caso.
Allineando la tecnica alla propria poetica, l’intento di Picasso non era tanto quello di stupire, quanto quello di indagare il potere dello sguardo e dell’intervento dell’artista, in grado di trasformare anche gli oggetti più banali e dare loro una nuova connotazione: il tema della metamorfosi e la figura del toro, onnipresenti nella sua produzione, trovavano qui una sintesi perfetta.
Le novità introdotte da Duchamp sarebbero state poi fondamentali, negli anni Sessanta, per la nascita dell’arte concettuale, di cui l’artista francese è considerato un precursore. Si rafforza infatti in questo decennio l’idea di arte non più considerata come mezzo per la produzione di dipinti o sculture a mero scopo decorativo, ma come strumento volto ad indagare i processi creativi, l’espressione di idee e, appunto, di concetti. La scelta e l’elevazione di oggetti quotidiani al rango di prodotti della cultura più elevata continuerà invece nell’opera di alcuni dei maggiori artisti del secondo Novecento, come gli americani Robert Rauschenberg (Port Arthur, 1925 – Captiva Island, 2008) e Jasper Johns (Augusta, 1930) o l’italiano Piero Manzoni (Soncino, 1933 – Milano, 1963).
Chiara Franchi
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