Tra ferro e cemento: la Certosa di Garegnano

Percorrendo la linea ferroviaria Torino-Milano, giunti in prossimità del capoluogo lombardo, si comincia ad attraversare una selva grigia di casermoni e complessi industriali, grovigli di raccordi stradali e passaggi ferroviari, che tanto servirono ad un’Italia uscita martoriata dalla guerra, ma che oggi mostrano tutti i limiti, le contraddizioni, gli abusi.

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Fig. 1. Vincenzo Seregni, Certosa di Garegnano.

Ma da questa coltre fatta di ferro e mattone, orograficamente si staglia timido il campanile di uno dei complessi più affascinanti della città meneghina, la certosa di Garegnano. Fondata nel 1349, ad opera di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano, ha sempre suscitato ammirazione e piacevoli ricordi, da Petrarca a Lord Byron.

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Fig. 2. Certosa di Garegnano, interno: veduta d’insieme.

Ovviamente questi scrittori non videro lo stesso complesso, per i numerosi interventi subiti nel tempo. E oggi non ne rimane che il cuore, la chiesa di Santa Maria Assunta. La sua facciata è opera del Seregni e risente della lezione dell’Alessi e del Tibaldi. Ricchezza plastica e tensione monumentale tra sviluppo verticale e orizzontale della facciata saranno una costante dell’architettura manierista milanese, di cui Santa Maria dei Miracoli presso San Celso è uno dei vertici; con echi che arriveranno fino al tardo seicento come si può vedere in Santa Maria della Passione.

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Fig. 3. Daniele Crespi, storie di San Bruno: il risveglio dalla morte di Raimondo Diocres, 1629 circa.

La scultura in facciata di San Bruno ricorda la celebre opera di Marco d’Agrate, San Bartolomeo scorticato del Duomo milanese. Visitata di mattina, la luce tenue rende l’interno della chiesa un’epifania. L’ottima conservazione degli affreschi dà l’impressione che siano stati terminati da poco, giusto il tempo che le pareti, asciugandosi, restituiscano luce ai colori. Gli affreschi della navata sono opera di Daniele Crespi.

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Fig. 4. Daniele Crespi, storie di San Bruno: il sogno del Vescovo Ugo, 1629 circa.

Le scene raccontano episodi della Storia di San Bruno, fondatore dell’ordine dei Certosini, il cui culto era stato rinnovato nel 1623 da papa Gregorio XV. Nelle figure dipinte si mescola l’enfasi fisica del Morazzone con il sentimento drammatico del Cerano. Rispetto a questi maestri del seicento lombardo, Crespi si sofferma a donare solennità alle scene, dignità ai volti, compostezza ai movimenti, il che rende il messaggio degli episodi chiaramente leggibile.

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Fig. 5. Daniele Crespi, storie di San Bruno: Ruggero di Calabria , a caccia, incontra san Bruno in preghiera. In basso a sinistra si può notare la presenza del cartiglio con la firma del pittore e la data 1629.

Stretti negli spicchi della volta erompono teneri angeli. La loro gioia celeste che trabocca dai visi ha ricordi del Procaccini. Il primo lunettone sulla sinistra, raffigurante L’incontro di Ruggero di Calabria con San Bruno in preghiera, reca oltre alla firma anche la data, 1629. E’ il canto del cigno per il nostro pittore, che di lì a poco, nel 1630, sarà falcidiato dalla peste manzoniana.

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Fig. 6. Daniele Crespi, Volta della Certosa di Garegnano, particolare, 1629 circa.

La decorazione dell’abside è precedente all’intervento di Daniele Crespi. E’ un capolavoro di Simone Peterzano. Le scene raffigurate sono basate sul tema della Redenzione. Rappresentano un fresco esempio della pittura post Concilio di Trento. Rifiutati ogni intellettualismo, ogni riferimento alla cultura pagana, ogni orpello che ne sviasse la lettura, le parole d’ordine sono devozione e decoro, secondo le istruzioni impartite da san Carlo Borromeo.

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Fig. 7. Simone Peterzano, Natività, 1578 circa, presbiterio.

Gli episodi devono spingere ad un raccoglimento spirituale. Questa volontà di ritornare ad un rinnovato semplice eloquio, trovava nella tradizione artistica lombarda terreno fertile, da sempre attenta ad esprimere il dato naturale preso nella sua realtà quotidiana. Ed in particolare l’arte del Peterzano ben si coniugava a tali aspettative. I suoi lavori denunciano una forte matrice lombardo-veneta.

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Fig. 8. Simone Peterzano, Adorazione dei Magi, 1578 circa, presbiterio.

Negli affreschi si può cogliere un sapiente controllo del colore, che non delude le aspettative di un pittore che si presentava come allievo di Tiziano. La tavolozza è composta da violetti, terre, verdi e gialli presi in varie tonalità, armonizzate con un continuo gioco di rimandi. Le vesti delle figure, illuminate dalle finestre soprastanti, brillano di riflessi lunari.

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Fig. 9. Simone Peterzano, cupola dell’abside con angeli reggenti gli strumenti della Passione di Cristo, 1578 circa.

Avvicinandosi quasi a naso agli affreschi, si può cogliere come Peterzano doni effetti cangianti, lasciando emergere colpi di giallo, alla veste turchina della Vergine. Nella Natività sono evidenti richiami all’esperienza del Bassano, per quella malinconica e poetica evocazione dell’umile mondo rurale. Pure vi sono affinità con l’arte cremonese, i Piazza in primis: i personaggi sono corpi nervosi di tendini, di muscoli e di ossa colorati di carne. Nelle tele della parete di fondo, i richiami sono tutti rivolti alla tradizione artistica bresciano-bergamasca (Moretto, Savoldo) per la fredda brillantezza, quasi metallica, delle luci; per i tipi umani; per gli accordi cromatici delle vesti e degli incarnati (tenui rosa/aranci/verdastri).

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Fig. 10. Simone Peterzano, al centro Cristo crocifisso attorniato da angeli e con ai piedi la Maddalena, a sinistra la Vergine e a destra San Giovanni, 1578 circa, catino absidale.

Peccato che queste pitture siano state offuscate dal ciborio monumentale dell’altare novecentesco, molto simile a quello di San Fedele a Milano. L’abilità di Peterzano come freschista emerge ulteriormente nelle figure della volta absidale: qui scorci arditi di angeli, sibille, profeti ed evangelisti, dominano l’Empireo. Quanto queste figure siano state importanti per la storia dell’arte, lo rivela il San Matteo e l’angelo, ai lati di questa gloria celeste, dove è già in nuce l’imminente rivoluzione di Caravaggio.

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Fig. 11. Simone Peterzano, San Matteo e l’angelo, lunetta sinistra dell’abside, 1578 circa.

Prima di lasciare la chiesa meritano attenzione anche gli affreschi settecenteschi della cappella dell’Annunciazione, o del Santo Rosario. Sono opera di Biagio Bellotti da Busto Arsizio, con le quadrature di Antonio Agrati. Vi si scorge una buffa contrapposizione fra una esibita muscolatura delle figure ed una leggerezza cromatica tutta settecentesca basata su rosati e azzurrini, tipici del rococò internazionale.

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Fig. 12. Biagio Bellotti e Antonio Agrati, volta della cappella del Rosario, metà XVIII sec.

Le parti più belle sono quelle decorative, dove riccioli e festoni dorati hanno colpi di luci nelle punte che le rendono di una vibratile brillantezza. La decorazione plastica dell’ambiente probabilmente doveva essere più ricca, ora limitata ai bellissimi stucchi dell’abside. In più doveva esserci anche un tramezzo che dividesse la parte dei fedeli da quelli dei monaci, quasi sicuramente decorata.

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Fig. 13. Biagio Belloti e Antonio Agrati, Incoronazione di spine, metà XVIII sec, cappella del Rosario.

Ma la mutilazione più dolorosa e feroce, è avvenuta in tempi recenti, quando si decise la demolizione del chiostro maggiore per lasciar passare un raccordo autostradale. All’interno della chiesa, solo in un angolo un angelo regge con le ali l’unica acquasantiera marmorea pervenutaci; guarda al cielo e sorride. Vanitas vanitatum et omnia vanitas…

Dario Michele Salvadeo

Le immagini, scattate per l’occasione, sono state realizzate da Marco Audisio

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