«Le sensazioni che ci danno le opere d’arte viste dal vero rimangono la parte più bella del lavoro di uno storico dell’arte. Tutto il resto è filologia.»
Nemmeno il tempo di scendere dal treno e di andare a prendere un caffè macchiato e una brioches al pistacchio che l’orologio segnava le 10:30: eravamo in ritardo. Camminare non era mai stato un problema eppure quella volta, l’andatura veloce della dottoressa Donatella Talamonti e la cappa di umidità insopportabile che c’era quel giorno a Firenze, me l’ha fatto pesare non poco. Era sabato e quel luogo tutto sembrava fuorché l’Opificio delle pietre dure. C’erano operai dappertutto e camion pieni zeppi di assi di legno: tra poco si sarebbe aperto Pitti Uomo. La marcia era ancora veloce ma almeno era rallentata dagli ostacoli e dagli operai che stavano lavorando alacremente. Non mi dimenticherò mai il profumo del legno che ho sentito quando siamo entrati. Legno e vernice, tutto là dentro sapeva di tavole di legno appena restaurate. Giusto il tempo di sistemarci, andare in bagno e accomodarci in una grande aula, come quelle dell’università, che la dottoressa Cecilia Frosinini era entrata e portando doni, aveva già iniziato a parlare, raccontandoci di quel luogo magico. Eravamo all’Opificio delle Pietre dure di Firenze, istituzione nata con finalità solo in parte diverse da quelle attuali fin dai tempi dei Medici (1588); ma non ci trovavamo nella sede storica di Via Alfani 78, ma in una sede distaccata, quella situata presso la Fortezza da Basso a pochi metri dal polo fieristico della città di Firenze, sede prescelta dopo la tremenda alluvione che colpì la città nel 1966 perché situata su un piano leggermente rialzato rispetto al centro storico della città. Questo spazio sarebbe diventato definitivamente il quartier generale dei laboratori di restauro dopo la nascita ufficiale dell’istituzione avvenuta nel 1975 per volere dell’allora Ministero per i Beni Culturali e Ambientali oggi noto come MiBACT e di Ugo Procacci noto storico dell’arte e già funzionario di Soprintendenza.
![Fortezza_da_basso,_11[1].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2018/06/fortezza_da_basso_111.jpg?w=736)
Dopo la breve introduzione siamo andati a vedere i laboratori. Nessuno aveva il coraggio di entrare in quelle grandi stanze. Ci precedette la dottoressa Frosinini, e noi con passo incerto la seguivamo in religioso silenzio. C’era roba dappertutto, colori, spatole, armadi grandi e piccoli, tavoli da lavoro, sgabelli; per un attimo mi è sembrato di tornare con la mente alle ore di discipline plastiche del liceo artistico. Solo che nell’aula di modellato non c’erano i capolavori che si celavano dietro quell’apparente disordine. Alcune opere erano coperte da veli trasparenti, altre erano in bella mostra e si potevano ammirare in tutto il loro splendore. Sostammo a lungo davanti ad una Vergine di Ambrogio Lorenzetti appena rientrata da una delle più belle mostre monografiche sull’artista. Era un frammento di affresco staccato ed era steso su un tavolo; doveva essere restaurato il supporto sul quale si ergeva quella figura così malconcia. Quasi non si notava, eppure era là su quel tavolo tra mille strumenti di lavoro, in primis i pennelli. C’era poca luce, eppure si capiva che quella figura, quell’opera d’arte, aveva sofferto molto nei secoli addietro. Si notava la perdita quasi totale della pigmentazione azzurra del manto, tutto il rimanente strato pittorico si limitava alle tonalità delle ocre e di alcune sfumature di rosso, pochi erano gli accenni di verde; in alcuni casi si riusciva perfino a vedere la sinopia.

Proseguendo la nostra spedizione ci imbattemmo niente popò di meno che nel frammento con due Apostoli di Giotto, parte di un ciclo molto più ampio realizzato dall’artista per l’antica Basilica di San Pietro a Roma. L’opera, già esposta al tempo della grande mostra sull’artista andata in scena a Palazzo Reale a Milano tra il settembre 2015 e il gennaio 2016, ha rischiato di lasciare l’Italia e tutt’ora è in cerca di un proprietario. L’auspicio è che il MiBACT faccia qualche passo per acquistare questo capolavoro: almeno è stato notificato. Anche quel frammento era lì perché ne venisse restaurata la pellicola pittorica e perché gli venissero rimosse alcune ridipinture posticce a secco. I volti di quei due Apostoli sembravano parlare talmente erano intensi.

Siamo rimasti a lungo davanti a quelle due testoline, poi abbiamo preso un lungo corridoio dov’erano stesi una quantità impressionante di Crocifissi lignei di tutte le età e di tutte le grandezze: quello più piccolo era della lunghezza di un braccio, quello più grande raggiungeva i due metri di altezza. Passato il corridoio ci trovammo davanti al magnifico Compianto sul Cristo Morto (1528) di Rosso Fiorentino (normalmente conservato presso la chiesa di San Lorenzo a Sansepolcro). La tavola del Rosso era quasi completamente ricoperta da strisce di carta velina non acida per evitare le cadute di colore, il retro lasciava emergere la composizione della tavola per mezzo di una serie di assi di legno incollate assieme; si vedevano chiaramente le linee di commettitura delle varie assi: quanta sofferenza hanno subito nel corso dei secoli. Il sistema di traverse orizzontali che tenevano assieme le assi, al momento non era ancora stato riposizionato: erano ancora in restauro e forse sarebbero state sostituite da traverse nuove. Ruotando il capo, sotto un velo che ne aumentava l’alone di mistero e insieme di meraviglia si vedeva chiaramente la monumentale Croce di Giotto per la chiesa di Ognissanti. In quel caso il restauro era ultimato, si trattava solo di aspettare che gli addetti ai lavori riportassero quel capolavoro nel suo luogo deputato; i veli che la coprivano erano stati messi per evitare che cumuli di polvere e altri agenti atmosferici compromettessero il restauro appena concluso.

In quella stanza ad aspettarci c’era Ciro Castelli, esperto restauratore di superfici lignee che ci ha spiegato il complicato sistema di realizzazione delle traverse e delle assi delle croci di Giotto. È stato illuminante poi vedere il signor Castelli all’opera su una tavola di Rubens; stava sistemando i cavicchi sul retro della tavola e nello stesso tempo stava riportando le assi che componevano il dipinto nel loro originale allineamento.

Col tempo infatti la curvatura delle assi aveva disallineato i vari piani di legno causando piccole cadute di colore. Si erano fatte le 12:30 e la dottoressa Frosinini doveva farci vedere anche altre opere. Imboccammo di nuovo il lungo corridoio che avevamo fatto per entrare nella sala con Rosso Fiorentino e Giotto, passammo nuovamente davanti ai numerosi crocifissi lignei e finalmente giungemmo davanti ad una meravigliosa tavola di Botticelli, era la Pala di Sant’Ambrogio (1470 circa) che normalmente si conserva agli Uffizi. Sull’opera, appena restaurata, era stata stesa da poco la vernice finale e tutto l’ambiente profumava di quella vernice. I colori erano brillanti, i Santi erano tornati a splendere in quelli che dovevano essere i loro colori originali o almeno a quanto di più vicino ci potesse essere. Avvicinandoci alla tavola, priva di cornice, abbiamo osservato lo strato pittorico della tavola che era costituito da pochi millimetri di colore. Appena dietro, accatastato al Botticelli c’era il Compianto su Cristo morto di Andrea Del Sarto, lì depositato dopo la conclusione della mostra tenutasi a Palazzo Pitti lo scorso inverno sul Cinquecento fiorentino, di cui tra l’altro, ho dato conto in un passato articolo del blog.

Se non fosse stato per il suo stile inconfondibile e per i suoi colori squillanti, quel capolavoro sarebbe passato del tutto inosservato, poiché in quella stanza gli occhi erano tutti puntati su un altro capolavoro della storia dell’arte moderna, ossia il ritratto di Leone X (1518) di Raffaello proveniente dalla Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Non so descrivere l’emozione che ho provato nel vedere una simile opera da pochi millimetri, quasi il mio naso ci è andato a sbatterci addosso, ma per fortuna mi sono fermato prima. Barerei se non dicessi che non appena tutti si sono allontanati il mio indice ha sfiorato la superficie pittorica di quell’opera. Il cuore batteva forte! Nel toccare quella superficie si sentiva chiaramente lo spessore delle vernice stesa con più corposità sulla sola figura di Papa Leone X Medici rispetto alle altre due, rispettivamente i Cardinali Giulio De Medici e Luigi De Rossi. L’effetto che ne risulta è che la figura del Papa emerge maggiormente evidenziata mentre le altre due sono leggermente sotto tono. Quelle vernici non erano frutto dell’intervento di restauro dell’Opificio ma di passati interventi. Ogni dettaglio del dipinto è reso con dovizia di particolari e attenzioni, dalla seggiola al tavolo fino agli oggetti poggiati sopra la scrivania, il libro delle sacre scritture aperto e una campanella decorata con motivi all’antica; un meraviglioso esempio di natura morta cinquecentesca, dove la campanella sembra uscita dal pennello di un fiammingo. I colori non hanno subito gravi ingiallimenti, questa tavola sta abbastanza bene, e ancora un volta girandoci accanto abbiamo notato che la superficie pittorica presentava uno strato sottilissimo di colore. Tutto quel capolavoro è il frutto di pochi millimetri di pigmenti stesi sulla tavola. Pensandoci bene non sembra vero.

A nemmeno dieci passi di distanza stava coricato un Crocifisso di Simone Martini. Qualche disgraziato in passato ha pensato bene di pulirlo con della soda caustica, andando irrimediabilmente a compromettere la superficie pittorica del dipinto. Al di sotto dello strato pittorico e della foglia d’oro si vedeva chiaramente il bolo rosso per la preparazione della stesura dell’oro che ormai era scomparso. Le figure dei dolenti erano invece meglio conservate e sullo sfondo era presente uno strato di azzurrite tutto sommato ancora ben conservato che rendeva quel cielo di un azzurro intenso, tipico d’altronde di quel pigmento.

Dopo questo tuor de force la visita non poteva finire senza vedere la Pala di San Marco (1440 circa, Museo Nazionale di San Marco, Firenze) di Beato Angelico, altro capolavoro depositato momentaneamente nei laboratori dell’Opificio. Anche su questa splendida tempera su tavola, come su quella di Simone Martini, durante un passato restauro è stata stesa della soda caustica, provocando l’abrasione e la perdita di gran parte della superficie pittorica della zona centrale del dipinto. Ciò che risente maggiormente di quel malaugurato intervento è la Madonna in trono con il Bambino. Il manto azzurro della Vergine e l’intera figura di Gesù bambino risultano infatti completamente perduti. Si può avere idea di che cosa fosse quest’opera solo grazie a un più recente intervento che è andato ad integrare le parti pittoriche mancanti con delle aggiunte di colore in sotto tono. Bisogna sottolineare che oltre alla stesura della soda caustica come mezzo pulente della superficie pittorica, in quel drammatico restauro, è stato usato come consolidante del legno del paraloid, che con il passare del tempo non ha fatto altro che danneggiare il film pittorico, poiché una controindicazione di questo materiale è che al suo invecchiamento tende a diventare molto rigido fino a sembrare una patina plastificata che è molto difficile da rimuovere durante gli interventi di restauro moderni, dove la parola d’ordine è reversibilità. Va detto inoltre, sempre soffermandoci sulla superficie pittorica, che la figura in basso a sinistra raffigurante San Cosma celerebbe in realtà un ritratto di Cosimo il Vecchio de Medici e che tale ritratto sarebbe stato eseguito a olio e non a tempera come il resto della tavola. La straordinarietà di questo dipinto sta poi anche nello sfondo naturalistico dove sono presenti una infinità di alberi in parte nascosti da cortine tendate giallo ocra che fanno da quinta alla scena principale del dipinto. Notevole è anche il pavimento di matrice cosmatesca ai piedi di questa sacra conversazione, quest’ultimo non intaccato dalla soda caustica che ha interessato invece la zona centrale della tavola. Evidentemente al nostro pseudo restauratore non interessava la totale pulitura del dipinto ma solo le parti che riteneva fossero più importanti.

Arrivati alla fine della mattinata e della visita, l’orologio segnava le 14:00, e tutti noi ci siamo domandati quanto quelle tavole avessero sofferto durante i secoli e quanto ancora le generazioni future potessero goderne come ne avevamo goduto noi privilegiati che eravamo andati a vederle. A qualcuno è saltato in mente un passato discorso di Alvar Gonzales Palacios in cui affermava che le opere d’arte sono legni fragili da difendere contro le esposizioni sconsiderate; probabilmente vedendo quelle tavole “nude”, in tutta la loro fragilità e precarietà del loro stato di conservazione, quel qualcuno avrà dato ragione al grande studioso. E c’era già chi era pronto a giurare che, prima di uscire da quei laboratori, quelle tavole di legno gli avessero parlato proprio come avevano parlato agli occhi e alle orecchie degli antenati che per primi le hanno sapute vedere, che per primi le hanno sapute ascoltare. Al pomeriggio dovevamo andare a Santa Maria Novella.
Marco Audisio
Rispondi