Non ci era mai capitato, o quasi, di arrivare a metà di una mostra allestita al Mudec (Museo delle Culture di Milano) e dire: speriamo che non sia già finita, sarebbe bello se ci fosse un’altra sezione, speriamo che ci siano altre cose da vedere, altre opere da ammirare, da studiare, da capire. Con la mostra Roy Lichtenstein. Multiple visions in scena al Mudec fino al prossimo 8 settembre e curata da Gianni Mercurio e da 24ORE Cultura, l’istituzione milanese è riuscita finalmente a produrre un’esposizione di un certo interesse e soprattutto, ciò che più conta, di una certa qualità. Dobbiamo anche ammettere che la presentazione fatta dal curatore prima dell’inaugurazione, ha contribuito non poco a rendere più chiaro ciò che saremmo andati a vedere.

Roy Lichtenstein (New York, 1923 – 1997) è stato uno tra i più importanti esponenti della Pop Art americana, un maestro della quotidianità popolare. Nelle sue opere cercava non solo di esprimere il senso domestico degli oggetti comuni, ma anche quella ricerca formale ed estetica che, insieme al primo, forma le peculiari caratteristiche dell’artista. L’arte che Lichtenstein concepisce abbraccia la “pura” visibilità intesa come estetica della forma, lo stile come manifestazione dell’opera d’arte e quindi del vero Io dell’artista. La raffigurazione non mira mai a indagare e quindi a restituire il contenuto iconologico della rappresentazione ma cerca di rimanere sulla superficie delle cose, giocando con i materiali, sperimentando sempre nuove forme espressive, al fine di ottenere risultati di superficie diversi, tipici della cultura pop.

Come ha giustamente osservato il curatore Gianni Mercurio durante il suo intervento in occasione della conferenza stampa della mostra, tutti hanno visto almeno una volta nella propria vita le opere di Lichtenstein, ma pochi sono coloro in grado di associare ad esse il nome dell’artista. Ci troviamo infatti di fronte ad un personaggio dal percorso cerebrale ed intellettualistico, lontano da quell’immaginario eccentrico e mondano che la Pop Art stessa inevitabilmente richiama. La carriera di Lichtenstein è accademica, votata allo studio e alla sperimentazione e d’altra parte ciò emerge chiaramente se si osserva la sua biografia: dopo una breve esperienza come insegnate alla Ohio State University, dove si era formato, nel 1957 ricopre la carica di Assistant Professor – ovvero ricercatore – presso la New York State University, mentre dal 1960 al 1963 è docente presso il Douglas College, in New Jersey. Nonostante nel 1964 la rivista “Life” lo definisca “il peggiore artista degli USA”, alla carriera universitaria si affiancano importanti partecipazioni ad eventi internazionali: nel 1966, 1968 e 1970 Lichetnstein è alla Biennale di Venezia; sempre nel 1968 e nel 1972 espone a Documenta, presso Kassel.
![IMG_0639[1421] 5.JPG](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/06/img_06391421-5.jpg?w=676&h=928)
Lichtenstein esordisce negli anni Cinquanta; l’interesse, durante la sua fase giovanile, è ancora orientato verso i grandi predecessori del Novecento: si avvicina in particolare ad artisti quali Paul Klee (Münchenbuchsee, 1879 – Muralto, 29 giugno 1940), Max Ernst (Brühl, 1891 – Parigi, 1976) o Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973). Del primo condivide l’immaginario infantile, mentre gli altri due sono fonte d’ispirazione soprattutto per quanto riguarda il surrealismo che pervade certi soggetti e la risalita alle radici primitive della propria cultura, da ricercare nelle espressioni culturali dei Nativi Americani. Parallelamente, Lichtenstein comincia a studiare e ad applicare le più disparate tecniche di stampa.

Con l’avvento degli anni Sessanta, avviene la svolta verso un tipo di arte più nettamente pop, che trae ispirazione dal nuovo stile di vita consumistico, figlio del benessere economico che si diffonde negli Stati Uniti nel secondo Dopoguerra. I prodotti venduti nei nascenti supermercati, i volti delle pubblicità e i protagonisti dei popolari comics divengono le nuove icone della cultura di massa e gli artisti della nuova generazione, come Lichtenstein, non sono certo indifferenti a mutamenti di tale portata.
Ecco quindi comparire nelle sue opere oggetti quotidiani, come utensili, bicchieri, tazze da caffè; interni di ambienti, da quelli più famigliari – salotti, camere da pranzo e da letto – allo Studio Ovale della Casa Bianca; monumenti iconici della cultura americana, come la Statua della Libertà; le donne, prima, durante e dopo la rivoluzione femminista americana, che con il variare delle tendenze variano i loro sentimenti e le loro passioni; le sculture smaltate, l’astrattismo e la rivisitazione di opere dei grandi maestri dell’arte contemporanea, Picasso e Dalì in testa. Opere che, nonostante mostrino una stretta connessione e quindi un debito nei confronti di tali maestri, esprimono in modo lapalissiano lo stile e il sentimento tutto “pop” di Lichtenstein, basato sul linguaggio del fumetto, della cartellonistica pubblicitaria e sul cartone animato.

Al di là della portata rivoluzionaria dei soggetti scelti, la vera genialità di Lichtenstein risiede proprio nella tecnica da lui elaborata agli esordi della fase pop e che merita un approfondimento adeguato. Al principio di tutto vi sono delle immagini: fotografie, ritagli di fumetti, pubblicità tratte da riviste.
La base di partenza è dunque bidimensionale; come afferma lo stesso artista:
“Tutti i miei soggetti sono sempre bidimensionali, o quanto meno provengono da fonti bidimensionali. In altre parole, anche se dipingo una stanza, si tratta dell’immagine di una stanza che ho estrapolato da una pubblicità di mobili in una guida telefonica, cioè da una fonte bidimensionale”.
Tali immagini vengono poi riprodotte, quasi sempre in scala maggiore, a mano, per mezzo di colori acrilici. Questi dipinti si distinguono per le spesse linee di contorno nere, riempite da squillanti colori primari stesi a campiture piatte, privi di qualsiasi ombra o sfumatura: la bidimensionalità viene in questo modo esasperata. Le opere frutto di tale procedimento sono accattivanti, estremamente contemporanee, si caratterizzano per l’insistenza sul come vengono elaborate, a discapito dei soggetti. Ciò appare evidente soprattutto nella serie dei comics, quei fumetti che hanno consacrato l’artista a fama internazionale, nonostante egli vi si dedicò solo per pochi anni della sua carriera: i soggetti, tratti da generi maschili – action, guerra – e femminili – sentimentali, romance – vengono estrapolati dalle storie, tagliati o parzialmente nascosti: il loro ruolo all’interno delle vicende che raccontano, il sentimento che vogliono comunicare, non è più rilevante, ciò che conta è l’impatto visivo che la loro immagine eserciterà da quel momento in poi sull’osservatore. Su di essi, l’artista applica quindi il celeberrimo puntinato Ben-Day, una vera e propria firma che ha conferito alle sue opere quella cifra stilistica inconfondibile: si tratta della replica della puntinatura tipica del retino tipografico, che Lichtenstein riproduce meticolosamente a mano, tramite il disegno libero o l’applicazione di stencil.
Un interessante documentario visibile lungo il percorso dell’esposizione mostra l’artista al lavoro e ci permette di seguirlo nelle varie fasi di elaborazione delle sue opere: dalla realizzazione degli originali, disegnati con assoluta padronanza tecnica, all’applicazione degli stencil per replicare il Ben-Day. Si tratta di un modo di operare estremamente manuale, quasi artigianale, che colpisce per il paradosso che crea con il successivo, cruciale passaggio durante il quale, sempre per usare le parole dell’artista, si “rimette in stampa la stampa delle immagini”. Mediante quest’ultimo step avviene infatti la trasformazione dell’opera d’arte da “tradizionale” a pop: l’originale viene replicato meccanicamente in un numero, potenzialmente infinito, di copie, l’opera si avvia a perdere quell’aurea di unicità decantata da Benjamin e diviene un prodotto seriale, come qualunque altro oggetto industriale pronto ad essere acquistato e consumato. Le tecniche e i materiali utilizzati spaziano dalla serigrafia, alla litografia e xilografia, dalla carta, al feltro, alla lana.
![IMG_0563[1420] 4.jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/06/img_05631420-4.jpg?w=736)
Attraverso questi particolari filtri, Lichtenstein, a partire dal 1963, torna a confrontarsi con i grandi del Novecento. Suspended mobile (1990) sembra rilevare un certo grado di dipendenza dai cosiddetti Mobiles di Alexander Calder; Kandinskij, teorico del fondamentale Spirituale dell’arte (1912) e di Punto, linea, superficie (1926), sembra quasi essere confluito in certe opere dell’artista americano appartenenti al periodo astratto, dove pare che si affollino triangoli, quadrati, punti e superfici resi però, come sempre, nel suo inconfondibile linguaggio.

In altre occasioni, l’artista reinventa il cubismo e, quasi come se fosse un gioco, assistiamo alla trasformazione di forme e soggetti chiaramente picassiani in accese immagini moderne, pop, irresistibilmente americane.
![IMG_0539[1418] 2.jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/06/img_05391418-2.jpg?w=736)
Anche la parte dedicata alla scultura dà modo di entrare in contatto a trecentosessanta gradi con il genio dell’artista. Egli utilizza infatti i più disparati materiali: dal legno di ciliegio smaltato e dipinto con colori acrilici evidente in Brushstroke V (1986) al bronzo dipinto e patinato di Profile Head (1988) e di Brushstroke Nude-Maquette (1992-2005) e danno l’impressione di una più accentuata tridimensionalità tattile che viene fin voglia di sfiorare.

La serie dei Brushstrokes, ovvero delle “pennellate”, merita una menzione particolare: si tratta del congelamento del gesto pittorico per eccellenza, spogliato tuttavia dalle sue implicazioni romantiche e spirituali ed osservato con un distacco non scevro di una certa ironia verso i contemporanei esiti dell’espressionismo astratto.
Non mancano infine gli esperimenti figurativi, come nella serie dei paesaggi – fra i quali troviamo Moonscape, del 1965 – nei quali Lichtenstein si cimenta nella lavorazione del Rowlux, un particolare tipo di pellicola derivata dalla plastica che crea, a seconda di come viene utilizzata, particolari effetti tattili e tridimensionali che cambiano anche al variare della luce solare o artificiale.

Come emerge dall’esposizione, nel corso dei decenni Lichtenstein ha affrontato temi diversi, tutti organizzati in series di opere accomunate di volta in volta dagli stessi soggetti; a ciò si addice perfettamente l’organizzazione della mostra per sezioni tematiche, modo di operare che spesso abbiamo criticato, ma che in questo caso si dimostra coerente con il percorso dell’artista.
Si tratta di un’esposizione estesa: sono oltre cento le opere, collocate in una successione di sale ampie e ariose, dai colori freddi. Domina su tutti un grigio siderale che però non disturba oltremodo, poiché si amalgama bene ai colori squillanti delle opere esposte: giallo, rosso e blu. Non mancano tuttavia anche pavimenti a moquette rossi e gialli a pois, un tantino psichedelici forse, ma che danno subito il senso del variare del percorso espositivo, segnando la fine e quindi l’inizio di una nuova sezione. Le etichette, a scritte nere su color rosa tenue, risultano chiare; i pannelli di sala sono a loro volta completi e non esageratamente lunghi o prolissi e fanno immergere il visitatore in ciò che poco dopo andrà a vedere. I faretti, tutti schermati, che illuminano le opere, risultano adatti all’occasione, non si evidenziano scomodi riflessi o noiosi riverberi nonostante tutti i quadri, o quasi, siano protetti da un vetro.

Negli anni Novanta, raggiunta ormai la fase più matura del proprio percorso, Roy Lichtenstein osservava:
“In quasi mezzo secolo di carriera ho dipinto fumetti e puntini per soli due anni. Possibile che nessuno si sia mai accorto che ho fatto altro?”
Bene, questa mostra si è rilevata l’occasione per (ri)scoprire un’artista un poco ingiustamente passato alla storia con il titolo riduttivo di “re dei comics” e che difficilmente si ha modo di approfondire sui banchi di scuola o delle università. Il percorso espositivo ci ha dato modo di capire e apprezzare lo straordinario sperimentalismo materico e tecnico di un maestro della quotidianità popolare come lo è stato Roy Lichtenstein. Non avendo la pretesa di porsi come evento di ricerca o di eccessiva filologia, la mostra risulta piacevole e in un certo senso divertente, spiritosa coinvolgendo il visitatore nell’abbacinante mondo pop dell’artista. Una mostra dunque che merita a nostro avviso di essere vista, anche solo per il piacere di immergersi per qualche ora in un’atmosfera da cartone animato, colorata, volutamente leggera e irriverente.
Marco Audisio e Chiara Franchi
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