Il Meraviglioso mondo della Natura… e delle Mostre

Quando si fa una mostra, il titolo è una cosa molto importante da non sottovalutare (al pari di quando si gira un film o scrive un libro). Esso ti dà la chiave di lettura. Ti fa capire quali siano i rapporti tra le opere esposte; se c’è un protagonista o se anche il nome più famoso ha lo stesso peso narrativo degli altri presenti. Questo ho imparato dalla mia ultima visita a Palazzo Reale, e se inizio così è perché ritengo proprio che questa mostra abbia sbagliato titolo; come un po’ tutte quelle del polo espositivo situato nel cuore pulsante del capoluogo lombardo, d’altronde (perché, ripensandoci, anche la mostra su Ingres avrebbe potuto trovare un senso se non fosse stata intitolata proprio a quest’ultimo).

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Fig. 1 Veduta del fregio di Orfeo ricostruito nella sala delle Cariatidi di Palazzo Reale.

Il meraviglioso mondo della natura. Una favola tra arte, mito e scienza, in scena fino al 14 luglio, è però una bella mostra. Oggi non accade spesso, ma questa volta si è potuto avere la forza di chiari presupposti scientifici: sia per i notevoli studi condotti dai professori Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, curatori della mostra, su una filiera iconografica tanto insolita come quella degli animali, presenze secondarie di molta pittura, ma altrettanto degni di essere analizzati nello sviluppo dei modi e degli stili occorsi per rappresentati, sia per il duplice lavoro che è stato condotto sul salone dell’ormai scomparso Palazzo Verri che si trovava in via Montenapoleone a Milano, nei cui dipinti di soggetto profano/naturalistico figurano più di 257 specie zoologiche. Detto che non è usuale prestare opere in fase di restauro ad un’esposizione, questo ha permesso di rendicontare il lavoro che i tecnici più esperti stanno ancora conducendo. E poi non bisogna dimenticare l’impegno, documentato ampiamente nel catalogo, di chi si è cimentato con l’identificazione di ogni singolo bipede, quadrupede o volatile e persino essenza vegetale raffigurata, come pure non si deve sottacere il valore altrettanto educativo, direi “archeologico” che ha la tentata ricostruzione di una sala a proposito della quale rimangono soprattutto fonti visive di ardua interpretazione.

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Fig. 2. A sinistra: Gioacchino Banfi, Sala del Palazzo Verri, 1870, Milano, Galleria d’arte moderna. Al centro: Francesco Colombi Borde, Sala del Palazzo Verri, 1880-1900 ca, Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone”. A destra: Leonardo Bazzaro, Dopo il duello, 1902, Milano, collezione privata. Questi dipinti, le cui didascalie in mostra e nel catalogo omettono l’indicazione sulla tecnica, sono opera di pittori educati all’Accademia di Brera, i quali si recano in questo luogo per «ritrarne l’austerità medievale delle linee e delle tinte». La sala di Palazzo Verri diventa così l’ambientazione per scene romantiche, cruente e in costume settecentesco.

A questo riguardo bisogna rendere conto ed elogio della bravura progettuale dei grandi scenografi alle cui persone si è chiesto di collaborare: Margherita Palli, la quale ha curato il progetto museografico, Pasquale Mari, autore di una sceneggiatura luminosa immersiva, e Rinaldo Rinaldi, uno degli ultimi grandi pittori di scene ancora in attività che ha ricostruito, in maniera posticcia, la decorazione murale che si poteva ammirare nel XVIII secolo nel salone di Palazzo Verri, lungo m. 15,60, largo m. 8,90 e alto m. 7,70.

Palli, inoltre, come scenografa, offre un contributo molto sapiente all’allestimento. Nel vestibolo d’ingresso realizza un’installazione giocata sul titolo della mostra, le cui parole a gruppi sono isole dal profilo frastagliato che emanano un soffuso bagliore verde al neon nella semioscurità, mentre in sottofondo ci accoglie il cinguettio degli uccelli boschivi, e nella sala del confronto fra Giovanni Ambrogio Figino e Caravaggio (smetteranno mai di chiamarlo in causa?) allestisce due espositori eleganti e minimali. Peccato che nel caso di Piatto metallico con pesche, detto botteghino non faccia vedere il retro del dipinto ove si trovano la firma dell’artista e un madrigale che ne magnifica l’abilità: «l’Arte vinse e la Natura avanza», si potrebbe leggere.

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Fig. 3. A destra: Giovanni Ambrogio Figino, Piatto metallico con pesche, 1592-93 ca, olio su tavola, collezione privata. A sinistra: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Canestra di frutta, 1595 ca, olio su tela, Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Il confronto operato da Giovanni Agosti è basato sulle diverse sensibilità con le quali i due pittori colgono il reale che stanno osservando. Figino è analitico, allievo di una scuola naturalista di provenienza leonardesca che però, a suo tempo, sarebbe già diventata «imbalsamata e accademica». Caravaggio, invece, assoggetta persino la natura inanimata a quella rivoluzione che intende liberare la pittura da qualsiasi idealismo di bellezza, rappresentato la frutta nella sua transitorietà verso l’avvizzimento. Per questo i due quadri, molto bene raccontati persino in alcune loro vicende collezionistiche o critiche, sono identificati come esempi, rispettivamente, di natura morta e natura «viva». Non rinunciando alla propria filosofia di fare marketing pop-culturale, Palazzo Reale elegge la canestra del Caravaggio a immagine promozionale della mostra.

Nella Sala delle Cariatidi, dov’è stata ricostruita la sala di Palazzo Verri, Palli, Mari e Rinaldi mettono al servizio nostro tutta la loro conoscenza della scenotecnica e della luministica teatrale per ricreare un ambiente nel quale il visitatore può credere di trovarsi veramente; solo un giro nel backstage di quest’impresa rivela che quelle pareti sono telai di legno, che le finestre e il soffitto dalle grosse travi con bottoni a rosetta d’oro sono in verità dipinti su tulle gobelin e che la luce, ora aurorale, ora mattutina, ora pomeridiana, ora crepuscolare, ora notturna che entra da quelle finestre è in verità generata da una batteria di fari computerizzati. E per godere appieno della bellezza dei dipinti, per leggerli dovutamente come in ogni museo che si rispetti, una luce museale interrompe per un attimo questo ciclo delle ore.

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Fig. 4. A sinistra: Rinaldo Rinaldi, Prove di ricostruzione della zoccolatura (lambris) che ricopriva le pareti del salone di Palazzo Verri, inizialmente realizzato da Giuseppe Moja nel 1766, 2019. A destra: “dietro le quinte” della ricostruzione della sala, si possono vedere la struttura in legno e le torrette con i fari.

Spendiamo due parole su queste opere. Le gigantesche tele abitualmente conservate nella cosiddetta Sala del Grechetto di Palazzo Sormani a Milano, sede della biblioteca civica, sarebbero infatti state attribuite al pittore genovese Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto (1609-1664), salvo poi, all’inizio del Novecento, ricondurre l’evidente frammentarietà dello stile alle mani di tre pittori educati a Firenze: il gedanese Pandolfo Reschi (1643-1699), l’italiano Antonio Giusti (1624-1705) e il belga Livio Mehus (1627-1691). In un paesaggio severo e inquieto convivono animali di ogni genere e provenienza; la figura di Orfeo e quella di Bacco bambino, allevato da ninfe e satiri, interrompono in due punti questo svolgimento di creature quasi enciclopedico. Proprio a supporto della teorqia che questi, come molti antenati pittori avessero copiato da animali visti nei serragli principeschi o imbalsamati nelle wunderkammer, – nonostante si supponga come maggiormente probabile la fonte costituita dall’Allegoria dell’aria di Jan Brugell (1621) – dall’altra parte della Sala delle Cariatidi sono stati raccolti oltre 165 esemplari tassidermizzati provenienti soprattutto dal Museo di storia naturale di Milano.

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Fig. 5. Pittore olandese, Pandolfo Rieschi e Livio Mehus, Ciclo di Orfeo, 1675-1680 ca, olio su tela, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco (in deposito a Palazzo Sormani, sala del Grechetto e sala dei Putti). Da sinistra a destra: dettaglio con Bacco bambino tra le ninfe e i satiri, di Orfeo che suona la cetra e di alcune raffigurazioni di animali. I dipinti furono spostati a Palazzo Sormani all’inizio del Novecento dall’architetto Achille Majnoni d’Intignano, in un ambiente che non rispecchia le dimensioni di quello originale. Ciò ha comportato brutali operazioni di ritaglio e ricomposizione delle tele, con alterazione del primigenio ciclo iconografico.

E adesso le dolenti note. Proprio in virtù di questo spiccato fondamento scientifico capace d’instillare nella mostra un notevole valore divulgativo e didattico, e un po’ anche perché ormai Palazzo Reale ci ha abituato alla talora estenuante (e poco educativa) grandezza delle sue esposizioni, mi sarei aspettato e per una volta avrei voluto vedere una mostra molto più ricca e articolata – pur se con una coscienziosa selezione dei pezzi, dalla quale è velenoso prescindere – nei molti generi in cui si declina il tema del rapporto che hanno avuto con la natura i pittori dal Rinascimento alla fine del Seicento: la natura morta di frutta o cacciagione, il paesaggio, la scena di genere e in particolare quella di caccia o domestica. Invece la ricostruzione della sala del fu Palazzo Verri domina la mostra, costituendone il fulcro e purtroppo la conclusione. E qui mi ricollego a quello che dicevo all’inizio: Il meraviglioso mondo della natura avrebbe potuto essere l’azzeccattissimo, nonché poetico e suggestivo sottotitolo di una mostra che si poteva volere interamente dedicata a quest’imponente opera.

La mostra inizia pure bene; il paragone tra la raffigurazione di un gatto tra le pagine di un trattato di medicina tardomedievale e da parte di Leonardo da Vinci (non dimentichiamolo, è il cinquecentenario della morte), su un foglio del Codice Atlantico dedicato agli studi di geometria, introduce a come sia cambiata la tecnica di rappresentare gli animali, che ancora per la maggior parte del Rinascimento si preferiscono morti da accomodare nella posa, mentre il rivoluzionario polimata riesce a coglierli nella loro viva quotidianità.

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Fig. 6. A sinistra: Giovannino De Grassi, Gatto arraffa una fetta di cacio da Historia plantarum,1395-1400, tempera su pergamena, Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 459, f. 118v. A destra: Leonardo da Vinci, Studio sull’equivalenza di superfici e disegno di un gatto dal Codice atlantico, 1513-15 ca, penna e matita nera, Milano, Venerabile Biblioteca Ambrosiana, f. 268r. Una curiosità: codice atlantico è il nome riservato dalla bibliologia ai libri di grande formato, solitamente usati per riportare carte geografiche. Proprio perché questo volume di Leonardo misura 64,5×43,5 cm (nella sua redazione definitiva, successiva al suo stesso autore), si è guadagnato l’arcinoto appellativo.

D’altro canto basta entrare nella sala successiva (se riuscite a capire che la mostra vi prosegue), per accorgersi di come tanto impegno di curatela venga quasi nullificato: perché vedere le opere dal vivo quando possiamo avere la sensazione, per un attimo, di essere tornati nelle aule dell’università? Che tra l’altro la videoproiezione risolve il problema di muovere, anche se virtualmente, un affresco dal luogo in cui si trova. Questo momento ci insegna che le bestie ritratte dai pittori nel corso della Storia sono state molte e varie: cani, ghepardi, pavoni, giraffe, scimmie e rinoceronti e pure gli artisti che ne hanno perpetuato le immagini furono tantissimi: Vincenzo Catena, Albrecht Dürer, Dosso Dossi, Jacopo Bellini, Giorgione, Ambrogio Lorenzetti, Ghirlandaio, Piero di Cosimo, Gaudenzio Ferrari, il Garofalo, Matteo Giovannetti, gli allievi di Pisanello e l’ancora poco identificato maestro del Cifulet per dirne alcuni. E tutti insieme, uomini e animali (ma anche frutta, piante e luoghi dei quali avremmo potuto vedere) hanno da raccontare un’interessantissima storia di modelli figurativi che si tramandano e arricchiscono, a mano a mano che da copiare le miniature si passa all’osservazione diretta e che bestie esotiche sempre nuove arrivano nel vecchio continente da mondi in via di esplorazione.

Niccolò Iacometti

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