Dürer a Milano. Identikit di una mostra all’italiana

Come ho già detto in un’altra occasione queste mostre non andrebbero disertate, ma la dicotomia tra una divulgazione ampia di cui sentiamo oggi il bisogno e l’appiattimento dell’informazione “erogata” ci accompagna non di rado. Soprattutto presso quelle istituzioni, come Palazzo Reale a Milano, che ospitano un numero spropositato di esposizioni ogni anno.

Lo storico dell’arte Tomaso Montanari insieme con Vincenzo Trione ha scritto un libello a questo riguardo dal titolo provocatorio: Contro le mostre. Si tratta, a loro detta, di mostre la cui vocazione principale sarebbe fare business (staccando quanti più biglietti si riesca e commerciando in souvenir, ma soprattutto) puntando sul clamore di nomi che anche i meno esperti hanno comunque sentito nominare più volte. Spesso mancano una ricerca originale o criteri espositivi scientificamente rigorosi, e ogni cosa si riduce alla raccolta di immagini le più disparate, esibite poi in gran quantità. Addirittura, sarebbero diseducative.

Tutto ciò dovrebbe scoraggiare la fruizione di questi eventi, eppure mi riservo di non farlo a mia volta. Quel che mi preme, invece, sarebbe formare dei visitatori consapevoli o per lo meno sradicare in chi mi legge una mentalità inadatta: il museo non può essere un divertimento leggero, magari animato da attrazioni come un parco giochi o, peggio ancora, una sorta di circo Barnum che si adatta ai gusti e alle tendenze del pubblico. La via di abbassarne la qualità alla conformazione di un pubblico-massa non è percorribile, per quanto sia nobile l’obiettivo di portare sempre più gente alle mostre.

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Fig. 1 Albrecht Dürer, Il cavaliere, la Morte e il diavolo, particolare del cartiglio con il monogramma dell’autore, 1513.

Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia sfugge anche se non del tutto a questo comportamento. Dedicata al pittore tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), possiamo dire che si focalizzi sulle influenze che hanno avuto su di lui i contemporanei, connazionali e Italiani (veneti nello specifico), permettendogli di raggiungere la sintesi di queste due grandi tradizioni artistiche a cavallo tra due secoli.

Inaugurata il 21 febbraio scorso, chiuderà il prossimo 21 giugno. Curata dal professor Bernard Aikema, il quale ci accoglie e introduce alla mostra dalla cornice di un monitor, è promossa dal Comune di Milano, Palazzo Reale e il gruppo 24 ORE Cultura. È una mostra tematica, infatti si articola in cinque sale ognuna con un proprio titolo: Dürer, l’arte tedesca, Venezia, l’Italia; Geometria, misura, architettura; La Natura; Dürer incisore: l’apocalisse e i cicli cristologici; Il Classicismo e le sue alternative. Ogni sala è contraddistinta da un proprio colore dei pannelli espositivi.

Soprattutto nelle prime due, l’impressione è quella di essere immersi in un contesto storico-artistico fin troppo approfonditamente ricostruito. Per chi non ha mai visto l’incisione Prevedari realizzata dall’omonimo orefice su disegno di Donato Bramante, o un esemplare delle “Cronache di Norimberga” è l’occasione giusta; comunque si passa da Dürer ai suoi contemporanei in maniera alquanto dispersiva. Volendo esaurire gli argomenti a sfavore, possiamo dire che:

1 Una copia di autore ignoto (probabilmente seicentesca) del capolavoro di Albrecht Dürer, la Festa del Rosario, in esposizione permanente alla Národnì Galerie di Praga, è stata messa in una posizione atta a catalizzare l’attenzione, e quindi che avrebbe meritato semmai l’originale.

2 La mostra era partita con l’assenza di un’opera, nello specifico la Pala Barbarigo di Giovanni Bellini, ora presente in mostra e posta esattamente a fianco e a confronto con la Festa del Rosario, causa restauro non terminato. La grande tavola, curiosamente nominata “paliotto” nella didascalia (termine con il quale si indica la copertura anteriore di un altare), durante la sua mancanza è stata sostituita da una riproduzione a grandezza reale stampata su tela.

3 Sempre per motivi di conservazione, alcuni disegni presi un po’ da ogni sala hanno dovuto abbandonare la mostra prima del suo termine naturale. Le opere in questione sono tornate alla sede d’origine; ci informano le didascalie. Al loro posto, ancora una volta, possiamo ammirarne le riproduzioni su cartoncino.

4 Ai primi di marzo, le teche in plexiglass che custodivano i volumi del Underweysung der Messung (Trattato sulle proporzioni, 1525) e di altri testi dell’epoca che avevano influenzato Dürer nella stesura di questo scritto – tra cui il Divina Proportione di Luca Pacioli o il De Pictura di Leon Battista Alberti – si presentavano in cattivo stato di manutenzione. Fortunatamente, quando sono tornato a visitare la mostra in maggio ho scoperto che erano state pulite (e che la Pala Barbarigo era presente in originale).

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Fig. 2 A sinistra: Albrecht Dürer, Festa del Rosario, 1506. A destra: Giovanni Bellini, Pala Barbarigo, 1488.

Al di là di questi inconvenienti, abbiamo comunque la possibilità di osservare il ritratto che Albrecht Dürer fece di suo padre, orefice a Norimberga. L’uso perfetto della tecnica garantisce una resa della psicologia assente o comunque sottotono nel dipinto, esposto poco lontano, che ritrae un aristocratico tedesco ad opera di Michael Wolgemut (primo maestro di Dürer). Oppure Gesù tra i dottori del tempio, un pregevolissimo dipinto proveniente dal Museo Thyssen-Bornemisza di Mardid. Oppure ancora, più avanti, la Melencolia I, un’incisione allegorica nota per i suoi rimandi esoterici e matematici. E l’imponente, maestoso insieme di stampe dell’arco trionfale che la città di Norimberga allestì per celebrare nella primavera del 1517 la visita del Sacro Romano Imperatore Massimiliano I d’Asburgo.

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Fig. 3 A sinistra: Albrecht Dürer, Ritratto del padre, 1490. Al centro: Michael Wolgemut, Ritratto di Levinus Memminger, 1485. A destra: Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514.

Sempre nella parte dedicata all’attività di incisore (Dürer scrive ad un certo punto della sua vita: se l’avessi fatto da sempre oggi sarei più ricco di almeno mille fiorini), si possono ammirare le sedici tavole dell’Apocalisse realizzate nel 1498, le dodici della Grande Passione del 1496-1511 – ispirate a un ciclo dello stesso soggetto, opera dell’artista Martin Schongauer, che i contemporanei consideravano l’apice dell’arte grafica – e in più un esemplare rilegato della così detta Piccola Passione del 1511. Il più grande merito che ebbe Dürer, sostiene la curatela, risiede nell’avere elevato la grafica a stampa: «da un livello di onesta artigianalità al grado di aulica arte» secondo il nuovo senso veramente moderno che aveva dato al concetto Leon Battista Alberti.

Albercht Dürer è stato anche un distinto acquarellista; purtroppo non abbiamo molto di questa sua produzione, a parte qualche perla come il Granchio marino e la Anatra morta che testimoniano, insieme con i dipinti esposti nella terza sala, l’interesse naturalistico di questo pittore (proprio anche di molti suoi contemporanei).

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Fig. 4 Albrecht Dürer, Scene della Grande Passione: l’ultima cena, Ecce Homo, salita al Calvario e Cristo scende al Limbo, 1496-1511.

Nell’insieme delle altre figure coinvolte, tra i pittori nostrani compaiono: Leonardo da Vinci con il San Gerolamo penitente non finito, l’allievo di questi, Andrea Solario, che trascorse parte della sua vita in area veneta, Francesco Melzi ovverosia un altro leonardesco, Tiziano Vecellio con numerose incisioni, il già menzionato Giovanni Bellini, Alvise Vivarini, membro di un’importante famiglia di pittori veneziani, Jacopo de’ Barbari che a Norimberga avrebbe insegnato l’incisione a Dürer, Andrea Mantegna, pure lui in veste di incisore, Giorgione di Castelfranco, Vittore Carpaccio, Lorenzo Lotto, Marcantonio Raimondi (con un’incisione non tra le sue migliori), Andrea Previtali, Domenico e Giulio Campagnola.

Delle personalità teutoniche, invece, le quali in qualche modo hanno a che vedere con Albrecht Dürer e che ancora non abbiamo citato, possiamo menzionare: Lucas Cranach il Vecchio, Anton Kolb (il quale con il Barbari realizza una grande incisione di Venezia a volo d’uccello circondata dai venti e altre figure allegoriche di gusto mitologico), Albrecht Altdorfer, Hans Burgkmair, Wolf Huber e Hans Baldung Grien, considerato quest’ultimo l’erede artistico di Albercht Dürer, tanto da emularne l’uso di firmare le proprie opere con un monogramma del proprio nome.

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Fig. 5 A sinistra: Albrecht Dürer, San Gerolamo penitente, 1494. Al centro: Albrecht Dürer, Gesù tra i dottori del tempio, 1506. A destra: Albrecht Dürer, Illustrazione del Trattato sulle proporzioni, 1525.

Cosa possiamo dire arrivati fin qui? Se non conoscete questo pittore andate a vedere la mostra; se già lo conoscete, andate a vederla comunque. Sappiate però che le vere mostre (le grandi mostre, quelle di cui parleranno bene ai propri studenti i professori dei corsi universitari di museologia negli anni futuri) sono altre.

Niccolò Iacometti

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