Frida Kahlo al MUDEC. Oltre il mito?

“A volte bisogna chiedersi che cosa siano e che cosa rappresentano per un essere umano i legami sentimentali, che cosa veramente ci lega ad un’altra persona per capire fino in fondo coloro che ci stanno accanto e anche coloro che non ci stanno vicini ma che per noi contano veramente.”

Non era solo curiosità quella che ci ha spinto ad andare a vedere la mostra su Frida Kahlo al MUDEC, dietro c’era anche la voglia di scoprire se per una volta si potesse raccontare la vicenda di questa pittrice messicana tralasciando l’aspetto più privato e intimo, facendo emergere invece quello puramente artistico, quello che sostanzialmente, interessa di più agli storici dell’arte. Non avevamo mai visto una mostra su Frida Kahlo, eppure quante volte abbiamo sentito parlare di una esposizione dedicata a questa pittrice e quante altre abbiamo sentito l’eco delle sue vicissitudini biografiche! Per il sottoscritto, l’incontro con Frida è avvenuto in tempi relativamente “lontani” dalla sua maturità professionale, dov’è logico che alle vicende artistiche e storico-critiche si intreccino irrimediabilmente i ricordi e i legami personali e umani che hanno segnato una parte della sua vita e che, nemmeno a dirlo, hanno impregnato la visita di una certa nostalgia nel guardare le opere senza quei legami, senza quelle persone. Per Chiara certamente l’approccio è stato più “freddo”, forse più giusto sotto certi aspetti, segnato meno dalle vicissitudini personali e più invece dal rapporto critico con l’opera della pittrice, così come si conviene ad una studiosa di arte contemporanea. Ecco perché gli affondi più storici sono i suoi ed ecco perché la mia voce qui è solo quella del grillo parlante che interviene più “criticamente” non sugli aspetti storici e se vogliamo più filologici della mostra, ma solo sugli aspetti critici dell’esposizione. Per la freddezza filologica ci saranno altre e più consone occasioni: ebbene iniziamo.

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Fig. 1 Frida Kahlo, Autoritratto, 1940, Banco de Mexico Diego Rivera, Frida Kahlo Museums Trust, Mexico.

Si è conclusa lo scorso 3 giugno, dopo aver raggiunto un notevole grado di popolarità e diffusione mediatica, la mostra Frida Kahlo. Oltre il mito, inaugurata all’inizio di febbraio presso il MUDEC Museo delle Culture di Milano e, come da titolo, interamente dedicata alla celeberrima artista, nata a Città del Messico nel 1907. L’esposizione è stata curata da Diego Sileo, studioso specializzato in arte contemporanea latino-americana e membro, nel 2010, del progetto di ricerca che ha ridefinito l’archivio di Frida e del marito Diego Rivera (Guanajuato, 1886 – Città del Messico, 1957) presso Casa Azùl, la storica dimora – divenuta oggi museo – nella quale la coppia visse a partire dal 1940. Prodotta da 24 ORE Cultura, la piena attuazione della mostra è stata possibile grazie alla collaborazione con due importanti istituti di Città del Messico: il Museo Dolores Olmedo, che ha prestato per l’occasione l’intera collezione di dipinti lì conservata, e la Jacques and Natasha Gelman Collection, che vanta, insieme al precedente, la più grande raccolta di opere di Frida Kahlo al mondo. Una mostra attesa, che ha avuto i riflettori puntati su di sé sin dalla presentazione ufficiale – avvenuta lo scorso dicembre a Palazzo Reale – e non poteva essere altrimenti, considerata la grandissima forza di attrazione che il personaggio Frida è in grado di esercitare nella cultura di massa: artista inquieta, attivista politica, musa dei più celebri fotografi dell’epoca, donna capace di assurgere a icona di stile al pari di una vera e propria pop star del mondo dello spettacolo. La già grande popolarità della pittrice messicana ha fatto sì che le sue vicende biografiche siano ormai, oseremmo dire, di dominio pubblico; risulta difficile trovare qualcuno che non abbia mai sentito parlare del tragico incidente del 1927, che avrebbe segnato poi tutta l’esistenza della donna, per non dire della travagliata e triturante relazione con il collega Diego Rivera. Alla luce di queste considerazioni, è stata una piacevole sorpresa, almeno per i sottoscritti, leggere gli intenti sui quali si fondava l’ideazione della mostra, intenti dichiarati già nel titolo della stessa: presentare una Frida “oltre il mito”, rileggere la sua opera al di là dei semplici richiami alle vicissitudini personali, per lasciare spazio all’indagine del linguaggio e della poetica ed inserire quindi tali elementi in una corretta e dignitosa ottica storico-artistica. Un progetto dai presupposti scientifici, dunque, ed è con tali aspettative che ci siamo approcciati alla mostra. La donna, La terra, La politica e Il dolore sono i quattro grandi temi intorno ai quali si articolava l’esposizione. Sebbene si tratti oggettivamente di alcuni degli aspetti imprescindibili nella biografia di Frida Kahlo, occorre dire che, almeno superficialmente, l’osservazione di questi titoli sembrava suggerire, a discapito dei presupposti dichiarati, una certa continuità con la già citata tradizione espositiva, incentrata più che altro sui tratti “leggendari” della vita dell’artista.

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Fig. 2 Frida Kahlo, Ritratto di Miguel N. Lira, 1927, Gobierno del Estado de Tlaxcala, Instituto Tlaxalteca de Cultura.

Il genere predominante in mostra era, naturalmente, quello dell’autoritratto, che molta parte ha avuto nella costruzione “dell’iconicità” della pittrice: la prima sezione rifletteva proprio sul rapporto che Frida ebbe con la sua stessa immagine. Da tale analisi si evince come l’artista utilizzò sempre il proprio corpo come una sorta di manifesto e per tale motivo il suo inconfondibile volto è spesso accostato ad altri elementi simbolici – oggetti o animali, ad esempio – a seconda della natura del messaggio da vincolare: personale, politico, sociale, attinente alle proprie origini. Ciò vale anche per i numerosi ritratti eseguiti da Frida, fra i quali merita una menzione quello realizzato per l’amico Miguel N. Lira, poeta e scrittore, nel 1927. Si tratta di una prova giovanile nella quale l’immagine di Lira, di profilo, viene accostata a numerosi ed enigmatici oggetti, fra i quali si ravvisano un arcangelo e una lira, che rimandano, come un rebus, al nome stesso del protagonista della tela. La piccola figura femminile nella fascia superiore potrebbe invece essere una sorta di bambola cinese, forse un’allusione alla passione del giovane per la poesia orientale, che gli era valsa il soprannome “Chong Lee”. Assai interessante risulta inoltre l’onomatopeico “taaaaaaaaann” leggibile a destra del soggetto principale, un chiaro riferimento alle contemporanee ricerche futuriste sul paroliberismo che testimonia come Frida, nonostante la formazione da autodidatta, fosse aggiornata su ciò che avveniva in quegli stessi anni al di là dell’oceano. La prima area tematica della mostra era infine corredata da una sezione interamente dedicata al mezzo che, nella diffusione globale dell’immagine dell’artista, giocò un ruolo secondo solo a quello della pittura: la fotografia. Le potenzialità insite in questo strumento non dovevano certo essere estranee a Frida, dal momento che il padre stesso, Guillermo Kahlo (Pforzheim, 1871 – Città del Messico, 1941) era un fotografo, e nel corso della sua vita l’artista posò per alcuni dei più grandi professionisti del Novecento, come Tina Modotti (Udine, 1896 – Città del Messico, 1942), Dora Maar (Parigi, 1907 –1997), Edward Weston (Highland Park, 1886 – Carmel, 1958), Nickolas Muray (Seghedino, 1892 – New York, 1965).

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Fig. 3. Frida Kahlo, L’amoroso abbraccio dell’Universo, la Terra (Messico), Diego, io e il Signor Xólotl, 1949, Città del Messico, The Jacques and Natasha Gelman Collection.

La seconda sezione, la terra, vedeva invece Frida confrontarsi con il proprio legame, o, in alcuni casi, vero e proprio attaccamento viscerale, con la natura. Gli elementi organici, come piante, frutti, animali e paesaggi divengono in queste opere elementi integranti, che talvolta si fondono con il corpo stesso dell’artista, mentre in altri casi si elevano nuovamente a simboli ed allegorie, connessi in particolar modo alle simbologie delle civiltà precolombiane, a testimoniare la vicinanza della donna alle sue origini più profonde. Si veda, a questo proposito, l’opera del 1949 L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io Diego e il signor Xòlotl, nella quale la complessa iconografia di derivazione azteca – la dea della Terra Cihuacoatl, coperta dalla tipica vegetazione messicana, o il Señor Xòlotl, divinità a forma di cane che accompagna le anime nel loro viaggio nell’aldilà – si sovrappone alla cultura orientale, ravvisabile nel gioco di rapporti fra i vari elementi della tela, fondato sul principio dualistico dello Yin e dello Yang. Dal punto di vista stilistico, appaiono ravvisabili in questo dipinto alcuni parallelismi con le sperimentazioni surrealiste, sebbene Frida abbia sempre negato tale tipo di influenza nella sua poetica, oltre che una certa carica naïf che sembra rendere possibile l’accostamento di tali immagini con quelle evocate da Henri Rousseau (Laval, 1844 – Parigi, 1910).

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Fig. 4 Frida Kahlo, Salone di bellezza, 1932, collezione privata.

Per quanto riguarda invece l’aspetto relativo alla politica, esso veniva analizzato in mostra non tanto alla luce dell’attivismo professato da Frida sin dai tempi della scuola e sfociato poi nell’iscrizione al Partito Comunista Messicano, nel 1928, ma, in senso più lato, nella volontà di impegno e di resistenza sociale che traspare costantemente dalle sue opere, elementi sempre veicolati dalla sua stessa immagine. Al contrario, appare particolarmente originale ed esplicito il piccolo acquerello su carta Salone di bellezza, del 1932, con il quale Frida comunica la delusione conseguente alla riaffermazione delle forze conservatrici in Messico. In esso compare infatti il leader e presidente Venustiano Carranza (Cuatro Ciénegas, 1859 – Tlaxcalantongo, 1920), ironicamente raffigurato nei panni di Santa Claus e significativamente intento a consumare un lecca-lecca con i colori della bandiera messicana.

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Fig. 5 Frida Kahlo, La colonna spezzata, 1944, Città del Messico, Museo Dolores Olmedo.

La sezione dedicata al dolore racchiudeva infine numerose opere che testimoniano le drammatiche vicissitudini – le più note, come si diceva all’inizio – che hanno interessato la purtroppo breve vita dell’artista. Il dolore, in queste opere, viene portato innanzi all’osservatore senza mezzi termini, a volte in modo quasi macabro, attraverso immagini che chiamano in gioco senza timore l’interiorità – anche, e soprattutto, fisica – più profonda. Emblematico è l’autoritratto La colonna rotta, del 1944, nel quale l’artista propone un’immagine vista dall’interno della propria colonna vertebrale, spezzata dal grave incidente che la coinvolse nel 1927, mentre la pelle della donna appare cosparsa di piccoli chiodi, a simboleggiare i conseguenti e costanti dolori dei quali soffrì per tutta la vita. Così come Frida non teme di concretizzare sulla tela i propri disagi e le proprie sofferenze, essa raffigura senza sconti anche i drammi altrui, come accade nel dipinto Il suicidio di Dorothy Hale, che ritrae, momento dopo momento, come al rallentatore, il celebre fatto di cronaca che ebbe come protagonista la sfortunata attrice soggetto della tela, gettatasi da un grattacielo di New York nel 1938.

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Fig. 6 Frida Kahlo, Il suicidio di Dorothy Hale, 1938-39, Phoenix Art Museum, Phoenix.

L’esposizione andava in scena in una successione di quattro grandi stanze suddivise per temi in cui, al cambiare della sala e del tema, variava anche il colore e la temperatura sentimentale. Dei banconi squadrati accoglievano poi i numerosi documenti presenti in mostra. Davvero troppo grandi le sale rispetto alle dimensioni delle opere esposte, ma per una volta la vasta superfice delle sale era quanto meno giustificata dall’alto numero di visitatori. Anche le luci non hanno dato il top, infatti alcune opere risultavano parzialmente in ombra e i faretti, non sapientemente regolati, creavano effetti di riflesso su quelle opere dotate di vetro protettivo. La mostra si è discostata solo in parte dagli intenti dichiarati dal curatore, infatti se è vero che è stata data maggiore importanza alle opere e quindi al percorso artistico di Frida, e di questo ne siamo stati felici, è innegabile la massiccia presenza di riferimenti biografici legati alle sue vicende personali. Le perplessità maggiori scaturiscono dal fatto che la mostra è unicamente concentrata sulla vita e sulle opere di Frida Kahlo; ci sarebbe piaciuto vedere, almeno per una volta in questo genere di esposizioni, dei confronti sensati con i contemporanei sia americani che europei o almeno capire quali sono state le influenze figurative di questa pittrice. Ci sarebbe piaciuto inoltre vedere la figura di Frida immersa nel suo reale contesto culturale, privo o quasi di contaminazioni sentimentali o idealistiche, poiché siamo convinti che Frida non si spieghi solo con Frida. In questa occasione ci saremmo aspettati volentieri di vedere una Frida Kahlo “più fredda” dove i sentimentalismi e gli idealismi (soprattutto quelli politici) fossero lasciati fuori o quanto meno in disparte per far emergere quella che è a tutti gli effetti una buona pittrice. Spiace non essere riusciti a cogliere a pieno neppure le modalità di costruzione dell’opera né tanto meno venire a capo della sua tecnica pittorica. Non sarebbe stato male avere anche l’occasione di vedere in mostra le opere delle artiste sud americane che si sono rifatte alle opere di Frida, la cui influenza in mostra era solamente accennata. Ciò che però ci ha fatto maggiormente stupire è la quantità di persone che erano presenti con noi quando siamo andati a vedere la mostra. Forse le strategie di marketing hanno funzionato bene, forse l’icona “Frida Kahlo” è diventata ormai a tutti gli effetti un nome su cui contare per “fare cassa” eppure, lasciando per un momento da parte il cinismo, ci è sembrato davvero che quella massa interclassista di persone, giovani, anziani, uomini, donne, ragazze e ragazzi non fossero lì per consumare la mostra come si fa con un pacchetto di patatine, che non fossero lì per farsi raccontare le solite storielle su Frida ma che fossero realmente interessati ad apprendere e capire chi fosse realmente Frida e ad ammirare le sue opere, mossi da una passione che raramente abbiamo carpito da altre esposizioni, buone e meno buone. Il mito che le è stato costruito attorno facendo leva sui sentimentalismi e le ideologie politiche hanno fatto poi il resto.

 Chiara Franchi e Marco Audisio

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