«Perché le mostre vanno in scena? Immaginatevi degli attori su un palco scenico di un teatro che recitano la loro parte davanti a noi spettatori; si è vero gli attori sono in carne e ossa e loro, a noi spettatori, raccontandoci una storia, possono farci provare rabbia, dolore, tristezza, commozione, felicità, allegria: sentimenti ed emozioni. E non avviene lo stesso con le opere d’arte? I dipinti e le sculture sono i nostri attori, le opere ci raccontano una storia, il Museo è il loro palco e noi, bè noi siamo gli spettatori che ammiriamo quegli attori, quelle opere, quelle storie, proprio come si fa in teatro, perché un’opera d’arte, come un attore, può farci provare le medesime emozioni. Ecco perché le mostre vanno in scena».
Il Cinquecento a Firenze. “Maniera Moderna” e Controriforma è la mostra in scena fino al prossimo 21 gennaio nelle sale di Palazzo Strozzi curata da Antonio Natali, storico direttore della Galleria degli Uffizi, e dallo storico dell’arte Carlo Falciani. È l’ultima di una trilogia di esposizioni dedicate al Cinquecento a Firenze e ai suoi protagonisti tutte tenutesi a Palazzo Strozzi: la prima era stata dedicata a Bronzino (2010) e la seconda a Jacopo Pontormo e Rosso Fiorentino (2014). Questa terza esposizione racconta l’evoluzione più estrema di quel fenomeno, più storicistico che reale, che viene chiamato “Manierismo” o “Maniera moderna” di cui già parla Giorgio Vasari nelle Vite e che attraversa la seconda metà del Cinquecento fino ad arrivare alle soglie del Seicento. Lo fa portando nelle sale di Palazzo Strozzi una cinquantina di opere di quegli artisti “Manieristi” che difficilmente si studiano sui banchi di scuola e ormai anche nelle università; una compagine di pittori e di scultori che operano nella Firenze di Francesco I De Medici e che qui hanno lasciato innumerevoli bellezze.

Si immagini ora lo spettatore di veder sfilare sul palco i maestri assoluti del “Manierismo fiorentino”, primo fra tutti Andrea Del Sarto con il Compianto su Cristo morto degli Uffizi (1523-1524), seguito a ruota dalle imponenti e maestose tavole di Jacopo Pontormo, Rosso Fiorentino e Agnolo Bronzino, riunite tutte insieme con il preciso intento di mostrare allo spettatore il punto di partenza di quel fenomeno artistico. Ed eccole qui sotto i nostri occhi, imponenti, sono la Deposizione di Volterra (1521) del Rosso, la Deposizione Capponi in Santa Felicita (1525-1528) di Pontormo e il Compianto sul corpo di Cristo (1543-1545 circa) del Museé des Besancon, dipinto per la Cappella di Eleonora da Toledo (moglie di Francesco I) in Palazzo Vecchio, prima versione dotata di algida perfezione che nella sua seconda replica lo stesso Bronzino non riesce a raggiunge. E poi oltre ai pittori appaiono gli scultori, ed ecco che nella penombra si scorge il Dio fluviale (1526-1527 circa) del divino Michelangelo seguito dal Mercurio (1512 circa) di Baccio Bandinelli e dall’Apollo e Giacinto (1546 circa) di Benvenuto Cellini; lì in mezzo a quegli attori ci sta pure Giorgio Vasari con la monumentale pala dell’Immacolata Concezione (1540-1541) dove l’Adamo ed Eva, robusti e possenti come statue di marmo, sono una chiara meditazione sulle opere che Michelangelo ha lasciato nella città toscana. I corpi dei progenitori sono stritolati (come avviene in Laocoonte) da un mostro maligno che ha testa umana, ali di arpia e corpo di serpe e che viene schiacciato e sconfitto dal piede della Santissima Vergine.

Poi sfilano, tutte in una volta, le pale degli altari della controriforma delle più importanti chiese di Firenze, ecco allora ancora Vasari con la Crocifissione (1560-1563) della chiesa di Santa Maria del Carmine, seguito da Girolamo Macchietti con l’Adorazione dei Magi (1568) della basilica di San Lorenzo, Giovanni Stradano (artista di origini fiamminghe attivo per lo studiolo di Francesco I) con la gigantesca Crocifissione (1569) della basilica della Santissima Annunziata, dove ai piedi di Cristo campeggiano uno scheletro e un mostro con la testa di cane (forse un drago?) che fa invidia ai più contemporanei manga giapponesi.

E ancora si può ammirare l’Immacolata Concezione (1570-1572) di Bronzino e della sua bottega per la chiesa di Santa Maria Regina della Pace o, dal capo opposto della sala, la meravigliosa (mi sia concesso) Resurrezione (1574 circa) di Santi Di Tito, un artista che guarda continuamente alle opere di Bronzino e Baccio Bandinelli, proveniente dalla chiesa di Santa Croce. L’immagine del Cristo risorto in tutta la sua grandezza “terrorizza” gli astanti, i soldati colpiti da così tanta potenza, fuggono nel marasma generale ed ecco che l’aguzzino di sinistra è ripreso in una posa fortemente dinamica e plastica, dove il pittore può fare sfoggio di tutta la sua abilità non solo anatomica ma anche cromatica; basti notare gli effetti di chiaroscuro aranciato sull’armatura di maglia o sulla scimitarra che gli pende dal fianco sinistro. Per non parlare poi del soldato all’estrema destra che talmente abbagliato dalla luce divina emanata da Cristo, indietreggiando, si copre il volto per non essere accecato; anch’esso è ritratto in una posa fortemente dinamica e plastica avvitata su se stessa che contribuisce alla resa teatrale della scena. E ancora i corpi dei soldati a terra dimostrano meditazioni e meditazioni, e chissà quante, sulle opere del Buonarroti. In questa sala c’è poi una scultura che sola vale il viaggio e la visita alla mostra: mi sto riferendo al Crocifisso bronzeo (1598) di Giambologna che arriva dalla basilica della Santissima Annunziata. La resa realistica del volto di Cristo è qualcosa di assolutamente stupefacente nella storia della scultura italiana. Il volto è nello stesso tempo sofferente ma anche calmo, consapevole del destino che lo attende.

Nella sezione dei ritratti ci si trova davanti ad alcuni pezzi forti della mostra come il Ritratto di Francesco I (1570-1575) e il Ritratto di donna (1580 circa) di Alessandro Allori allievo del Bronzino, il Ritratto di donna (1570 circa) di Girolamo Macchietti dalla forte carica espressiva, e ancora il Ritratto di donna in veste di Santa Margherita (1600) di Jacopo da Empoli, un pittore cresciuto nella bottega di Maso di San Friano, che in questa sezione è presente con il Ritratto di Sinabaldo Gaddi (post 1564), ma che guarda costantemente a Bronzino.

In mostra non mancano poi le bizzarrie come l’opera di Carlo Portelli, il Martirio di San Giovanni Evangelista (1545-1555), che viene immerso in una pentola bollente mentre un aguzzino in ginocchio in primo piano alimenta con il fiato il fuoco sottostante e un altro che per alzare la fiamma aggiunge legna da ardere, aumentando così l’agonia del povero San Giovanni. Il tono della scena non è aulico ma quasi domestico, sembra che l’imperatore Diocleziano stia dando ordini ai suoi schiavi di far bollire un minestrone per un grandioso banchetto.

Continuando a camminare tra le sezioni della mostra, subito dopo quella riguardante gli artisti dello studiolo di Francesco I, si incontra quella dedicata alle allegorie e ai miti, tra cui spicca la Notte (1555-1565), conservata presso la Galleria Colonna a Roma opera di Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, un pittore che si forma presso il pittore Andrea di Credi per poi maturare il suo stile studiando le opere di Fra Bartolomeo e Andrea Del Sarto e per certi aspetti anche quelle di Bronzino. Nella Notte, i riferimenti a quest’ultimo sarebbero individuabili dalla presenza di aspetti tipicamente metaforici e allusivi quali le maschere presenti all’estrema sinistra e all’estrema destra del dipinto del Ghirlandaio e che compaiono anche in opere di Bronzino come la superba Allegoria con Venere e Cupido della National Gallery di Londra; senza tralasciare una certa meditazione sulle opere di Michelangelo, ravvisabili nel corpo femminile disteso che ricorda una perduta opera del Buonarroti, la Leda, ma giunta fino a noi attraverso disegni e copie e che Michele di Ridolfo doveva avere ben presente.

In questa sala non si può poi proseguire senza essersi fermati davanti alla Venere e Amore (1575-1580 circa) di Alessandro Allori, all’Amore e Psiche (1589) di Jacopo Zucchi o all’Ercole e Anteo (1559-1560) di Bartolomeo Ammannati tutte opere caratterizzate da un forte impatto erotico, velato di riferimenti ancora umanistici a noi oggi di difficile interpretazione. Curiosa è poi l’opera di Federico Zuccari (fratello minore di Taddeo), autore assieme a Vasari della vastissima decorazione pittorica della cupola di Santa Maria del Fiore, intitolata Porta Virtutis (post 1581, ante 1585), un’opera dal significato complicato quanto bizzarro ed eccentrico, con personaggi dai forti significati simbolici, la cui storia critica è sapientemente ripercorsa nella scheda di catalogo redatta da Cristina Acidini Luchinat.

Le ultime due sale sono dedicate all’avvio della pittura nel Seicento, ormai il Manierismo è tramontato e gli ideali dell’umanesimo stanno lasciando il passo, come del resto in tutta Europa, all’avvento di una pittura più “rassicurante e tranquilla”, quella della “Controriforma Cattolica” i cui dettami erano stati stabiliti dal Concilio di Trento (1545-1563). Tre in particolare sono le opere che lo spettatore non può fare a meno di ammirare: la prima è l’Annunciazione (1600) di Andrea Boscoli, dove l’angelo annunciante è ormai un chierichetto da messa della domenica, la seconda, e la più straordinaria, è la Visione di San Tommaso d’Aquino (1593) di Santi di Tito che abbiamo già incontrato parlando in precedenza della sua incredibile Resurrezione; nella Visione di San Tommaso il virtuosismo manierista è ormai abbandonato in favore di una vena più esplicitamente religiosa e dove i toni cromatici si fanno più netti e brillanti con un aumento del chiaroscuro, mentre la terza ed ultima opera della mostra, una scultura, è il San Martino e il povero (1598 circa) di Pietro Bernini padre del ben più famoso Gian Lorenzo protagonista assoluto del Barocco romano.

La mostra di Palazzo Strozzi è un’occasione per poter capire e studiare una parte ancora poco considerata dagli studi specialistici della storia dell’arte. Non è una mostra semplice, alcuni artisti presenti in mostra sono, ai più, sconosciuti e mentirei se dicessi che li conoscevo tutti prima di vedere la mostra. La scommessa dei curatori, ossia quella di estendere la conoscenza di queste complesse tematiche ad un vasto ed eterogeneo gruppo di persone, sfidando il classico sistema delle mostre a pacchetto che puntano in continuazione sugli stessi nomi, credo sia stata vinta e questo lo dimostra, tra le altre cose, il fastidiosissimo affollamento e brusio continuo delle sale di Palazzo Strozzi. A troppa gente contemporaneamente, infatti, è concesso di accedere alla mostra e questo, unito ai già piccoli spazi che ospitano le immense opere, fa sì che si restringa ulteriormente lo spazio vitale per poterle ammirare tutte come con una certa decenza e concentrazione. Forse sarebbe bene limitare di più il numero degli accessi in una giornata ed estendere maggiormente il periodo dell’esposizione, specie quando si constata che l’evento sta riscuotendo molto successo.

L’allestimento mi sembra ben concepito, a tutte le opere è dato il giusto spazio e risalto, sia a quelle pittoriche che a quelle scultoree, però ancora una volta l’illuminazione non va, troppe opere infatti hanno un fastidioso riverbero che non ne permette la totale fruizione e questo vale anche per le teche di vetro entro le quali sono sistemate alcune sculture. Il rigore scientifico delle ricerche e della mostra sono certamente molto alti e questo lo dimostra anche il voluminoso catalogo, edito da Mandragora, dal costo molto elevato (45 euro in mostra), tuttavia molto ben fatto e con un apparato fotografico di qualità. La mostra è costruita per sezioni e a volte l’ordine cronologico, puntualmente seguito dal catalogo, si perde leggermente, ma ciò non causa un’eccessiva confusione nel visitatore anche grazie ai pannelli di sala, brevi ma puntuali. Puntare a costruire un’esposizione sul Manierismo a Firenze portando in mostra numerosissimi artisti poco conosciuti, affiancati a capolavori indiscussi della storia dell’arte per far capire che a quei capolavori c’è tanto altro che vale la pena conoscere e studiare, credo sia stato certamente un rischio, ma ritengo anche che questo tipo di rischi gli storici dell’arte, quelli veri, dovrebbero prendersene di più, specie se questi sono i risultati. Un plauso credo dunque che vada fatto ai curatori di questa esposizione. La mostra è assolutamente meritevole di essere vista e ovviamente la consiglio.
Marco Audisio
Bellissimo articolo! Unico appunto che sento di fare è sulla Notte del Ghirlandaio. È evidente sia un riferimento alle figure voluminose e tornite di Michelangelo, ma ancor di più della Leda la trovo una citazione puntualissima della Notte della Tomba di Giuliano de’ Medici. Certo è che la Notte fu per Michelangelo già una rielaborazione di quel modello… ma la torsione del busto che appare quasi frontale rispetto alle gambe, il braccio che sparisce dietro la maschera su cui poggia, e anche la pettinatura identica con la treccia portata da un lato mi fanno pensare che sia stata una citazione voluta e palese più che una riflessione su un modello precedente.
Ad ogni modo, complimenti! 🙂
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Cara Alice,
Ti ringraziamo infinitamente dell’apprezzamento e della puntuale osservazione che hai mosso nei confronti della figura della “Notte” di Ridolfo del Ghirlandaio. Hai ragione nel constatare l’assoluta aderenza della pittura di Ghirlandaio con la scultura di Michelangelo.
Speriamo che continuerai a leggerci e a seguirci.
Cordiali Saluti
dal Team di LetterArti
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