Venezia: Tintoretto giovane Vs Tintoretto maturo. Parte 1

«[…] Nella medesima città di Vinezia è […] un pittore chiamato Iacopo Tintoretto, il quale […] è nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori; anzi ha superata la stravaganza, con le nuove e capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest’arte è una baia. Ha costui alcuna volta lasciato le bozze per finire, tanto a fatica sgrossate, che si veggiono i colpi de’ pennegli fatti dal caso e dalla fierezza, più tosto che dal disegno e dal giudizio. […] Ha dipinto quasi di tutte le sorti pitture a fresco, a olio, ritratti di naturale et ad ogni pregio, di maniera, che con questi suoi modi ha fatto e fa la maggior parte delle pitture che si fanno in Vinezia. E perché nella sua giovanezza si mostrò in molte bell’opere di gran giudizio, se egli avesse conosciuto il gran principio che aveva dalla natura et aiutatolo con lo studio e col giudizio, come hanno fatto coloro che hanno seguitato le belle maniere de’ suoi maggiori e non avesse come ha fatto tirato via di pratica, sarebbe stato uno de’ maggiori pittori che avesse avuto mai Vinezia […].»

Giorgio Vasari.

Le voci sulle mostre di Tintoretto a Venezia, una in scena alle Gallerie dell’Accademia e l’altra a Palazzo Ducale, si sono succedute con insistenza sin dalle loro rispettive inaugurazioni, tanto che, organizzando un viaggio a Venezia e sfidando l’acqua alta e il maltempo, non le si poteva non includerle nell’itinerario di visita. L’occasione era troppo ghiotta per farsele sfuggire: quello che si prospettava era il primo grande evento espositivo dedicato al grande maestro veneziano del Cinquecento dopo l’altra mostra monografica andata in scena in laguna, nel lontanissimo 1937 curata allora da Rodolfo Pallucchini (1908-1989) con la supervisione del restauratore Mauro Pelliccioli (1887-1974) a cui, fra l’altro, Venezia ha da poco dedicato un convengo di studi. A quella esposizione erano presenti settantanove opere di Tintoretto per la prima volta riunite tutte sotto un unico tetto. Quell’evento è stato, forse dal punto di vista critico e conservativo, la più eccezionale esposizione fatta in tempo di guerra. La mostra del ’37 faceva parte di una sorta di trittico espositivo, infatti nel 1935 era andato in scena Tiziano, mentre nel 1939 è stata la volta di Paolo Veronese. Era davvero però arrivato il momento, per la storia dell’arte, di confrontarsi, rivedere e sistemare tutto quello che nel frattempo, da quel lontano 1937 a oggi, è stato detto e scritto, ma mai messo alla prova dal confronto delle opere di Tintoretto riunite per poco tempo sotto lo stesso tetto, o in questo caso, sotto due tetti a poche centinaia di metri le une dalle altre. Altre sono state le mostre su Tintoretto negli anni; basti pensare a quella del 2007 allestita al Prado di Madrid o a quella non proprio eccezionale delle Scuderie del Quirinale a Roma nel 2012. Era il momento però di riportare Jacopo nella sua terra d’origine e fare di quella terra, di quella città, il palcoscenico dove mettere in scena due mostre che solo al visitatore distratto possono sembrare simili, ma che all’occhio attento e vigile risultano molto diverse per intenti e risultati raggiunti. È da dir subito che una esposizione è riuscita, l’altra decisamente meno.

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Fig. 1 Tiziano Vecellio, Cena in Emmaus, 1533-1534, Parigi, Musée du Louvre.

La mostra Il giovane Tintoretto in scena alle Gallerie dell’Accademia fino al prossimo 6 gennaio 2019 e curata da Roberta Battaglia, Paola Marini e Vittoria Romani, riunisce cinquantatré opere tra dipinti, incisioni, codici a stampa, disegni e statue di cui ventisei tra dipinti e disegni della giovinezza artistica di Jacopo Tintoretto e vuole celebrare il cinquecentenario della nascita del pittore. Non una mostra grande per il numero di opere esposte ma, a mio parere, una grande mostra dal punto di vista critico, nonché per la provenienza delle opere che arrivano da mezzo mondo e dalle più importanti istituzioni museali. Provare a raccontare l’avvio del percorso artistico di Jacopo Robusti detto Tintoretto (1518/19-1594) non dev’essere stato affatto facile e chissà quante sono state le discussioni, le diverse visioni di come sono andate le cose, le attribuzioni contestate e discusse fino allo stremo, chissà quante le strade percorse per far quadrare ogni cosa in una mostra che ha tutto il sapore di una mostra di ricerca, dove è evidente che le persone che vi hanno lavorato si sono spaccate la testa per provare a raccontare una storia che filasse, che avesse in se tutti gli ingredienti per farne un’esposizione di ricerca e di critica. Il giovane Tintoretto è nemmeno a dirlo, una mostra difficile che pone degli interrogativi, per così dire, scomodi a cui ahimè non esiste ancora una risposta univoca o definitiva; è un esposizione che fa pensare, fa riflettere e lo fa ponendo le domande giuste. Questa è davvero una mostra che fa dire che la storia dell’arte, se fatta bene, libera la testa! Non una monografica stretto senso, bensì una monografica con un’ampia selezione di opere di contemporanei di Tintoretto per spiegarne i personaggi ma anche i passaggi e i cambiamenti nel linguaggio stilistico, nonché il contesto entro cui il pittore mosse i primi passi della sua straordinaria carriera artistica. Se a tutto ciò si aggiunge che Tintoretto non è un pittore facile da capire esso stesso, si arriverà alla conclusione che per vedere questa mostra e per capire Tintoretto è richiesto al visitatore un certo sforzo intellettuale.

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Fig. 2 Bonifacio de Pitati detto Bonifacio Veronese, Il Giudizio di Salomone, 1533, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Giorgio Vasari nell’edizione Giuntina delle Vite racconta, entro la biografia del pittore Battista Franco, di un Tintoretto poco avvezzo al disegno e molto incline invece alla velocità della pennellata, lo definisce «il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura» e credo che avesse ragione. Il racconto biografico di Vasari deve però essere riletto non in chiave negativa ma in senso critico, Tintoretto è descritto come un pittore che ha fatto della «prestezza, della stravaganza, dei ghiribizzi e del capriccio» la sua più peculiare cifra stilistica. Allora la “disputa sulla maggioranza delle arti” era più viva che mai e un toscano come Vasari non poteva concedere appello a chi disdegnava la pratica del disegno favorendo quella del solo colore, per di più molte volte solo abbozzato. Questo è forse anche il motivo per cui Vasari non dedica una biografia autonoma al pittore, ma lo inserisce all’interno di quella di un altro pittore veneziano. Il testo di Vasari risulta a noi oggi ancora valido se ripulito da quelle ideologie, molto sentite dal pittore aretino, volte ad imprimere alla pittura fiorentina un primato che gli studi hanno fatto fatica ad abbandonare. Fortunatamente l’anatema vasariano non contagerà le biografie di Tintoretto redatte da Ludovico Dolce e Carlo Ridolfi. La «prestezza» consacra l’artista come uno dei massimi pittori veneziani grazie alle celeberrime Lettere di Pietro Aretino, pubblicate dall’editore Francesco Marcolini, il primo volume nel febbraio del 1545 e l’altro nell’aprile del 1548. Pietro Aretino (1492-1556) è una figura cardine per il giovane Tintoretto e saranno proprio quei volumi di lettere a favorire l’affermazione del pittore a Venezia.

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Fig. 3 Giovanni Antonio De’Sacchis detto Pordenone, San Martino e San Cristoforo, 1527-1528 circa, Venezia, Scuola Grande di San Rocco.

Infatti è nel 1545 che Aretino, oltre che intenditore d’arte, diviene uno tra i primi mecenati del Robusti, commissionandogli il soffitto della propria abitazione con storie mitologiche di Apollo e Marsia e Argo e Mercurio. L’umanista ha scelto di essere per Jacopo una sorta di secondo padre, nonché uno tra i suoi primissimi committenti. E non l’ha fatto solo per il suo buon cuore; dietro c’era una precisa volontà autocelebrativa all’interno del panorama veneziano. Tuttavia è solo con la lettera del 1548 che l’umanista celebra pubblicamente il primo capolavoro di Jacopo, ossia il Miracolo dello Schiavo per la Scuola grande di San Marco a Venezia. La commissione gli è stata procurata molto probabilmente da quel Marco Episcopi «guardiano di mattina della scuola» che sarebbe divenuto suo genero dopo che Jacopo prese in moglie sua figlia Faustina. La celebrazione di Aretino suscitò nel 1549 addirittura le ire del grande Tiziano che inveì contro l’amico di una vita. La reazione avuta da quello che allora era il più grande pittore veneziano la dice lunga sulla rivalità che correva tra i due pittori. Aretino stesso dovette commentare quell’episodio in una lettera del 1550. L’arrabbiatura di Tiziano nei confronti di Tintoretto nasce infatti proprio dall’elogio pubblico che Aretino fa del Miracolo dello Schiavo, mettendo “in ombra” la figura e l’opera di Tiziano. Quest’ultimo che vedeva nell’umanista una sorta di compagno alla pari, una sorta di fratello, si sente profondamente ferito dall’accaduto. Aretino sembra aver preferito la «gioventù e prestezza» di Jacopo a un Tiziano «grave d’età e di senno». In quella lettera il poeta esprime anche chiaramente che la rapidità delle pennellate del giovane Tintoretto si sarebbe dovuta sostituire negli anni con la pazienza del fare, cosa che a quanto sembra non avvenne mai: l’episodio è uno dei centri nevralgici su cui ruota la mostra alle Gallerie dell’Accademia. Un altro punto fondamentale dell’esposizione è quello della ricostruzione della vita artistica di quegli anni giovanili così concitati e dinamici. Quali erano gli artisti e le opere che il giovane Tintoretto poteva vedere in quegli anni a Venezia?

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Fig. 4 Polidoro da Lanciano, Sacra famiglia con Santa Caterina, 1539 circa, Berlino, Staatliche Meseen, Gemaldegalerie.

Così la mostra inizia con la bella Cena in Emmaus (1533-1534) di quello che forse fu il primo maestro di Tintoretto, ovvero Tiziano (1488/90-1576), nella cui bottega, Jacopo rimase per pochissimo tempo (qualche mese) proprio per il suo caratteraccio che gli causerà non pochi guai proprio con il suo maestro, il quale tentò in tutti i modi di tenerlo lontano dalle più prestigiose committenze sacre e profane. A fianco dell’opera di Tiziano si trova il Giudizio di Salomone (1533) di Bonifacio de Pitati detto Bonifacio Veronese (1487-1553), da cui Tintoretto trasse sicura ispirazione soprattutto per la resa dinamica dei personaggi, nonché per il colorito tutto veneto che investe le opere di questo artista. A Venezia, Jacopo poteva incrociare Paris Bordon (1500-1571) che in mostra è presente con la Consegna dell’anello al Doge (1533-35) o essere catturato dal michelangiolismo di Giovanni Antonio De’Sacchis detto il Pordenone (1483-1539), un artista friulano di nascita ma che lavorerà sia a Venezia sia nell’entroterra veneto spingendosi fino a Cremona. Di Pordenone è presente in mostra il San Martino e il San Cristoforo (1527-1528 circa) provenienti dalla chiesa di san Rocco a Venezia, ma che Jacopo poteva conoscere anche dalla Pala per San Giovani Elemosinaro dello stesso Pordenone. E non doveva neppure essere all’oscuro dell’opera e del lavoro di Polidoro da Lanciano (1510-1565) che in mostra è presente con la Sacra Famiglia e Santa Caterina (1539 circa) di Berlino, ancora memore degli influssi tizianeschi. Una sezione della mostra illustra invece i pittori toscani che giunsero a Venezia o che nella Serenissima mandarono dipinti e a cui il giovane Jacopo attinse per alimentare il carattere delle sue prime opere. Ecco che allora ci si trova davanti la bella Madonna e Santi (1539-1540) del fiorentino Francesco Salviati (1510-1563) realizzata durante il suo soggiorno veneziano per le monache camaldolesi di Bologna. Un altro artista giunto nella Serenissima intorno al 1541 è Giorgio Vasari (1511-1574) che realizza nel 1542 il soffitto di Palazzo Corner a Venezia; in mostra si posso ammirare alcuni dipinti provenienti da quella dimora come la Giustizia e la Pazienza, che normalmente si conservano alle Gallerie dell’Accademia. Quando Salviati e Vasari sono a Venezia, Tintoretto ha circa vent’anni e deve condividere la scena non solo con l’ingombrate Tiziano, ma anche con pittori del calibro di Jacopo Bassano, Andrea Schiavone, Giovanni Demio e Giuseppe Porta, un emulatore di Salviati tanto da acquisirne ad un certo punto il nome.

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Fig. 5 Francesco Salviati, Madonna col il Bambino in trono fra i Santi Cristina di Bolsena, Giovanni Battista, Filippo Apostolo, Nicolò da Bari e inginocchiati, Romualdo e la beata Lucia di Settifonte, Bologna, chiesa di Santa Cristina della Fondazza.

Un altro artista a cui Tintoretto dimostra di aver guardato durante i suoi anni giovanili è Lambert Sustris (1510/15-1584), un pittore olandese che trascorse svariati anni della sua vita in Italia e in particolare a Venezia dove pure vi morì. Di Sustris in mostra si può ammirare il Cerchio della Frode (1541-1542 circa), una scena allegorico-filosofica molto complessa e facente parte di un gruppo di altre quattro scene ispirate alla Tabula di Cibete, un testo greco di filosofia morale del I secolo dopo Cristo, oggi conservato presso la Fondazione Longhi di Firenze, ma un tempo nella collezione Manfrin di Venezia; un’opera che mette in evidenza come Tintoretto abbia ripreso certe soluzioni compositive e cromatiche dell’artista olandese all’interno delle sue prime prove pittoriche, in particolar modo nei dipinti di carattere domestico e privato.

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Fig. 6 Giorgio Vasari, La Giustizia e la Penitenza, 1542, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Di qui in poi sono esposte alcune opere giovanili di Tintoretto che vogliono raccontare l’esordio artistico di questo pittore. È da dir subito che diversi sono stati gli studi fatti dagli storici dell’arte in passato per cercare di ricostruire il corpus delle opere giovanili di Jacopo. Infatti, di queste opere giovanili, documentate dalle fonti o firmate dallo stesso artista ne esistono pochissime. Il primo studio che tenta di ricostruire le opere giovanili dell’artista è quello del 1950 di Rodolfo Pallucchini che titola La giovinezza di Tintoretto. In seguito, il lavoro del 1982 di Paola Rossi, che analizzava le opere sacre e profane dell’artista, contribuì ad allargare il numero delle opere allora attribuite alla giovinezza del pittore. Quelli di Pallucchini prima e della Rossi poi sono stati però risarcimenti troppo generosi con cui la “nuova e filologica” storia dell’arte si è ben presto trovata a fare i conti. Numerosi sono stati quindi gli studi dell’ultimo Novecento di storici dell’arte italiani e stranieri per cercare di fare ordine tra quelle che sembravano ormai delle attribuzioni troppo affrettate dettate certamente da errori in buone fede nel tentativo di rendere giustizia a un artista che aveva subito le sfortune della storiografia artistica a cominciare da Vasari. Un eccellente lavoro di messa a fuoco dei problemi relativi allo stile giovanile di Tintoretto fu portato avanti nel 1991 da Vittoria Romani, seguita dalle ricerche di Robert Echols durate dal 1994 al 1997.

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Fig. 7 Jacopo Robusti detto Tintoretto, Madonna con il Bambino tra i santi Giacomo, Elisabetta, Giovannino, Zaccaria, Caterina d’Alessandria, e Francesco, 1540, Collezione privata.

A ciò bisogna aggiungere che nel frattempo si era messa a fuoco la figura di Giovanni Galizzi, un pittore a cui, oggi si possono ascrivere numerosissime opere che un tempo erano attribuite a Tintoretto in persona; Galizzi è stato una specie di alter ego del grande Jacopo Robusti che ha causato non pochi problemi attribuzionistici. La mostra alle Gallerie dell’Accademia, dopo aver fatto emergere il contesto culturale e artistico esaminato poc’anzi, riparte proprio da quegli studi e cerca di fare il punto su una selezionatissima cerchia di opere di sicura attribuzione a Tintoretto giovane. Dunque in mostra si può ammirare la Madonna con il Bambino e Santi di collezione privata firmata in basso a sinistra sulla pietra: «jacobus», seguita da una ruota stilizzata, simile a quella di un mulino e dalla data «1540». L’opera rappresenta le meditazioni di Tintoretto su Salviati e Vasari, ma è già anche presente una sorta di “michelangiolismo annacquato” mediato dalla conoscenza dalle opere di Pordenone, forse conosciuto dalle stampe o tramite alcuni disegni autografi di Michelangelo posseduti dal giovane Tintoretto sui quali si esercitava continuamente e di cui in mostra sono presenti alcuni straordinari esempi. E non è impossibile che fossero di proprietà di Jacopo alcuni disegni in formato ridotto dei personaggi delle tombe medicee, la cui conoscenza è ben dimostrata se si osserva attentamente l’opera in esame.

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Fig. 8 Jacopo Robusti detto Tintoretto, Adorazione dei Magi, 1538-1539, Madrid, Museo National del Prado.

Della giovinezza di Tintoretto sarebbe anche l’Adorazione dei Magi del Museo del Prado di Madrid, datata tra il 1538 e il 1540 ancora debitrice di Tiziano; mentre accanto si trova la Conversione di Saulo della National Gallery di Washington, datata al 1544 che riprende la Battaglia di Cadore di Tiziano, conosciuta da Tintoretto forse da un disegno realizzato dal maestro nel 1537; a questi anni risale anche la Cena in Emmaus di Budapest memore ancora una volta dell’influenza tizianesca, nonché di quella di Bonifacio Veronese. Molto interessanti sono poi le tavolette con l’Incontro di Salomone con la regina di Saba o la Predizione a David databili tra il 1542 e il 1543 che ricordano le composizioni di Lambert Sustris o anche l’Ester e Assuero del 1544 circa, opera dello stesso Tintoretto. Questi sono dipinti di piccolo formato e di destinazione privata in cui inizia a emergere il carattere narrativo e dinamico della pittura di Jacopo. A prima del febbraio del 1545 risale la Contesa di Apollo e Marsia di Hartford, a quanto pare una delle opere commissionate da Pietro Aretino al nostro giovane pittore, a cui seguono i dipinti per il soffitto della casa dell’umanista (andati perduti?), nonché quelli già realizzati dal pittore per Palazzo Pisani a San Patrinian a Venezia, commissionatigli nel 1542 circa, e oggi conservati a Modena presso le Gallerie Estensi dopo essere state vendute al Duca Francesco I d’Este nel 1658.

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Fig. 9 Jacopo Robusti detto Tintoretto, La contesa di Apollo e Marsia, 1544, prima del febbraio 1545, Hartford, CT, Wadsworth Atheneum Museum of Art.

I forti scorci dal sotto in su dei pannelli modenesi hanno fatto ipotizzare alla critica un viaggio di Tintoretto a Mantova dove ebbe modo di ammirare gli affreschi di Giulio Romano in Palazzo Te, specialmente le scene della sala di Psiche. La Sacra famiglia con il procuratore Girolamo Marcello che giura nelle mani di San Marco del 1545 circa, si avvicina stilisticamente alla splendida Disputa di Gesù al tempio datata tra il 1545 e il 1546 proveniente dal Museo dell’opera del Duomo di Milano e già nella collezione del cardinale Cesare Monti. Il primo ad aver notato la notevolissima qualità stilistica dell’opera, attribuendola a Tintoretto è stato Francesco Aracangeli nel 1954, il quale iniziava a porre le basi per i futuri problemi dell’opera relativi alla cosiddetta questione del michelangiolismo.

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Fig. 10 Jacopo Robusti detto Tintoretto, Disputa di Gesù nel tempio, 1545-1546, Milano, Museo del Duomo.

Edoardo Arslan dalle aule dell’Università di Pavia lanciava nel 1960 una revisione critica del catalogo giovanile delle opere di Tintoretto arrivando a dubitare dell’autografia della Conversione di San Paolo poc’anzi menzionata; revisione che si sarebbe solo parzialmente conclusa con le ricerca di Echols “terminate”, per così dire, nel 1997. La Disputa è un’opera datata tra il 1545 e il 1546 che evidenza un problema cardine per chiunque decida di dedicarsi allo studio delle opere giovanili del nostro artista. Infatti nell’opera coesistono elementi michelangioleschi e raffaelleschi mediati dal colorismo veneziano di Tiziano. La composizione sembra riprendere quella della Scuola di Atene di Raffaello, richiamando anche alcune figure raffaellesche realizzate nei cartoni per gli arazzi dedicati ai Santi Apostoli Pietro e Paolo; mentre tal altre figure sono un chiaro riferimento alle Sibille della Sistina di Michelangelo.

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Fig. 11 Jacopo Robusti detto Tintoretto, Conversione di San Paolo, 1544 circa, Washington, National Gallery of Art, The Samuel H. Kress. Collection.

Arrivati a questo punto del discorso e della mostra non ci si può non chiedere se Tintoretto abbia o meno fatto un viaggio a Roma oppure se tali innovazioni nella sua pittura gli giungessero mediate dai disegni o dalle stampe che quasi immediatamente replicavano le novità dei due più grandi geni dell’arte occidentale. Già Pallucchini nel 1959 poneva l’ipotesi di un possibile viaggio romano di Tintoretto, sottolineando come il linguaggio michelangiolesco del Robusti gli derivasse dalla mediazione con le opere di Jacopino Del Conte visto a Roma nell’Oratorio di San Giovanni decollato. Nel 1971 Freedberg si domanda se quel linguaggio così fortemente ispirato a Michelangelo non fosse una riflessione di Jacopo sulle opere dei pittori tosco-romani giunti in laguna durante la giovinezza del pittore. La questione si complica ulteriormente quando si analizza la splendida e luminosissima Ultima Cena di Tintoretto per la Scuola del Santissimo Sacramento di San Marcuola realizzata entro il 27 agosto 1547 (il primo ad averla attribuita a Tintoretto fu Pallucchini che tra l’altro non aveva avuto modo di vedere l’inscrizione con la data 1547 sul dipinto) e lo straordinario capolavoro di Tintoretto, il Miracolo dello Schiavo per la Scuola Grande di San Marco, che segna il passaggio dalla giovinezza alla prima maturità artistica del pittore, licenziato entro l’aprile del 1548.

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Fig. 12 Jacopo Robusti detto Tintoretto, Ultima Cena, 1547, Venezia, chiesa di San Marcuola.

La mostra si interroga su che cosa sia successo allo stile di Tintoretto in un lasso di tempo così breve per far maturare una consapevolezza e un senso del corpo, della plasticità dei personaggi e della composizione quasi del tutto assenti nelle opere precedenti e in così poco tempo. Sono in molti che sostengono l’ipotesi che Tintoretto a quelle date sia entrato in possesso di disegni e stampe dei due grandi artisti rinascimentali, ma ritengo sia quasi impossibile per un artista, per quanto geniale come Tintoretto, arrivare a generare un’opera di quella grandezza, di quella forza, di quel linguaggio espressivo avendo davanti agli occhi solo delle stampe o dei disegni per quanto autografi. È mia opinione, nonché, se non vado errato, quella delle curatrici della mostra (seppur esposta in maniera molto velata in catalogo), che il Miracolo dello Schiavo non si spiega se non con un viaggio di Tintoretto a Roma. La composizione della scena dimostra l’attenta riflessione su Michelangelo conosciuto da Jacopo attraverso gli affreschi della Cappella Paolina in Vaticano e in particolare nella Conversione di Saulo (1542-1545) ma anche della stessa Cappella Sistina o la conoscenza di Raffaello delle Stanze Vaticane e in particolare dell’episodio con la Cacciata di Eliodoro dal tempio del 1512 circa. All’influenza di questi due geni rimanda infatti la concezione generale della scena ispirata dalla Conversione di Saulo di Michelangelo, mentre la donna sulla sinistra del telero di Tintoretto rinvia alla figura femminile, sempre sulla sinistra, nella scena della Cacciata di Eliodoro di Raffaello. Più in generale il senso narrativo e la concezione dei corpi, della fisionomia dei personaggi, la resa possente dei corpi, dei muscoli e la concezione stessa in senso magniloquente della composizione è il risultato della diretta presa visione di opere che se non conosciute dal vero non avrebbero mai potuto far scaturire il capolavoro del giovane Tintoretto. Le architetture del dipinto sono poi ispirate, oltre ai disegni per il teatro di Sebastiano Serlio (1490-1554 circa), soprattutto a quelle reali di Jacopo Sansovino (1486-1570) allora molto attivo a Venezia nella ricostruzione delle Procuratie vecchie nonché nella basilica di San Marco; ne sono un esempio le scene bronzee con il Miracolo dello Schiavo e quella della Conversione del signore di Provenza oppure il miracolo del soldato in Lombardia del 1541-1544. Il Miracolo dello schiavo di Tintoretto è l’insieme di tutti questi elementi uniti dal modo di concepire le figure con i loro chiaroscuri, le loro torsioni, la loro plasticità e dinamicità, le loro reazioni emotive alla scena che sta avvenendo sotto i loro occhi. Il colore è quello dei veneti o meglio dei veneziani e non sarebbe potuto essere altrimenti avendo avuto Tiziano come punto di riferimento; l’opera valse l’elogio di Pietro Aretino nella sua famosa lettera del 1548, ed è forse proprio lui che fa capolino a sinistra dell’opera.

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Fig. 13 Jacopo Robusti detto Tintoretto, San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura (anche detto Miracolo dello schiavo), 1548, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Tuttavia un viaggio di Tintoretto a Roma non è attestato (almeno allo stato attuale delle ricerche) da nessuna fonte e dunque la questione si riduce a questo: il giovane Tintoretto si è recato a Roma o no? La domanda non trova al momento risposta, ma le argomentazioni messe in campo per provare a chiarire il punto sono tutt’altro che banali e fanno riflettere. Sicuramente dopo aver visto la mostra ci sarà chi, senza rifletterci a lungo, continuerà a ritenere che l’artista non ha mai messo piede nella città eterna e chi invece continuerà a pensare che invece c’è andato, e poi ci sarà chi, come il sottoscritto, proverà a esaminare e a riflettere a lungo su tutte e due le ipotesi e poi sceglierà una di esse, parteggiando per l’una o per l’altra via di pensiero. La mostra si chiude con uno sguardo sulle opere degli inizi del sesto decennio del Cinquecento, ovvero quelle realizzate da Tintoretto per la Sala dell’Albergo all’interno della Scuola grande della Santissima Trinità e di cui ne sono un esempio in mostra le scene raffiguranti il Peccato originale e Caino e Abele (1550-1553) oggi conservate alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.

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Fig. 14 Jacopo Robusti detto Tintoretto, Il peccato originale, 1550-1553, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Idealmente la mostra Il Giovane Tintoretto si interrompe proprio dove attacca il principio dell’altra esposizione in scena a Palazzo Ducale; il linguaggio figurativo del pittore sta già virando verso altre soluzioni formali che giungeranno a maturità solo nei decenni successivi. Molte altre sarebbero potute essere le mie considerazioni sulla mostra e sulla giovinezza di Tintoretto, ma credo che al lettore questa prima disamina sia più che sufficiente per farsi un’idea generale. Era mia intenzione realizzare un’unica riflessione sulle due esposizioni, ma lo spazio utilizzato per analizzare questa prima mostra e la complessità dell’analisi dell’opera giovanile di Tintoretto non mi permettono di chiudere la questione, costringendomi a dedicare un articolo apposito per affrontare il tema della maturità e della vecchiaia della vita e dell’opera del pittore a cui rinvio il lettore. Il bel catalogo che accompagna la mostra, dà conto di tutti i risultati delle ricerche e di tutti gli sforzi messi in campo per questa manifestazione. Concludo dicendo che la mostra Il Giovane Tintoretto è una bella mostra, pensata, difficile, di ricerca e di critica che non lascerà insoddisfatto il visitatore e lo storico dell’arte che vuole capire per davvero la “questione” del Giovane Tintoretto.

Marco Audisio

Tutte le immagini, scattate per l’occasione, sono state realizzate dall’autore di questo articolo.

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