Il 2019 – ormai lo sentiamo ripetere da diversi mesi – è l’anno di Leonardo e sono davvero numerose le manifestazioni organizzate in tutto il mondo per celebrare il genio toscano e commemorare la sua scomparsa, avvenuta esattamente cinquecento anni fa ad Amboise, nel Castello di Cloux, alla corte del sovrano francese Francesco I.
Fra le molte città impegnate ad onorare questa ricorrenza non poteva certo mancare Milano, che con l’artista e scienziato originario di Vinci, presso Firenze, vanta uno stretto legame: Leonardo, infatti, risiedette ed operò nel capoluogo lombardo per circa vent’anni, dal 1482 al 1499 alle dipendenze di Ludovico il Moro, e per un breve periodo dal 1502 al 1506, in seguito alla caduta degli Sforza a causa dell’occupazione francese della Lombardia.
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Le occasioni che la città di Milano offre per prendere parte alle celebrazioni, riunite nel palinsesto “Leonardo Milano 500”, sono assai diversificate e si adattano agli interessi più disparati: gli amanti dell’arte contemporanea, in particolare, gradiranno l’iniziativa promossa dal Museo del Novecento che, attraverso la mostra “Lucio Fontana. Omaggio a Leonardo” offre un’occasione per riflettere sul rapporto che intercorre fra questi emblematici artisti.
L’esposizione, visitabile fino al prossimo 16 settembre, è a cura di Davide Colombo ed è allestita nella cosiddetta “Sala Fontana”, ovvero l’ampia area che ospita la celebre Struttura al neon realizzata dall’artista per la Triennale di Milano del 1951 e dalle cui vetrate si gode di una bella vista su Piazza Duomo.
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Il punto di partenza dal quale ha preso le mosse la riflessione critica intorno a questo insolito parallelismo si situa nel 1939, quando, presso il Palazzo dell’Arte – oggi Triennale di Milano – aprì al pubblico la grande “Mostra di Leonardo e delle Invenzioni italiche”. I visitatori all’ingresso dell’esposizione venivano infatti accolti da una gigantografia che riproduceva l’Officina delle bombarde, disegno vinciano (1485-1490) oggi conservato presso la Royal Collection di Londra, sulla quale era posizionato un Cavallo rampante dorato, bassorilievo in gesso che Fontana aveva realizzato per omaggiare una figura di cavallo impennato tratta dalla Battaglia di Anghiari, ovvero l’affresco che Leonardo lasciò incompiuto su una parete del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Quest’ultima opera, lo riordiamo, era stata commissionata all’artista toscano nel 1503 da Pier Soderini (Firenze, 1450 – Roma, 1522), gonfaloniere della Repubblica di Firenze, il quale intendeva in questo modo celebrare la battaglia combattuta e vinta nel 1440 dai fiorentini ai danni dei Visconti; le difficoltà incontrate da Leonardo nel tentativo di sperimentare la nuova tecnica del colore ad olio su intonaco portarono, tuttavia, al precoce abbandono dell’impresa. Oltre ai già citati disegni leonardeschi, sono giunti fino a noi anche alcune riproduzioni di parti del cartone dell’affresco, a sua volta perduto, grazie alle copie che eseguirono diversi celebri artisti, fra i quali riportiamo l’esempio del fiammingo Peter Paul Rubens (Siegen, 1577 – Anversa, 1640).
Quel primo incontro fra Leonardo e Fontana, in seguito dimenticato – del bassorilievo di Fontana esiste una sola fotografia, mentre il manufatto è andato perduto – ha dunque fornito l’occasione per riunire all’interno del prestigioso museo milanese diversi disegni, gessi e ceramiche eseguiti dall’artista fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta: tutte le opere in mostra sono accomunate dal loro interrogarsi e sviluppare i temi del cavallo e del combattimento, con espliciti riferimenti agli studi eseguiti da Leonardo per la già citata Battaglia di Anghiari, le cui riproduzioni, a loro volta esposte, agevolano il confronto fra i linguaggi dei due artisti.
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Nel 1939 Fontana era nel mezzo di una fase di passaggio: non aveva ancora ideato lo Spazialismo, con le serie dei “buchi” e “tagli” nelle tele grazie alle quale è oggi universalmente noto, ma i suoi interessi erano concentrati sulla plastica, in tutte le sue forme, dai bassorilievi, alla ceramica alla scultura vera e propria. Da una decina di anni si era reso indipendente dal maestro Adolfo Wildt (Milano, 1868 –1931) e a metà degli anni Trenta erano arrivati i primi, importanti riconoscimenti, grazie a due opere cruciali della sua produzione, ovvero la Signorina seduta del 1934, oggi conservata al Museo del Novecento, e il Cristo risorto, eseguito nel 1935 per la sepoltura della famiglia Castellotti, all’interno del Cimitero Monumentale di Milano. Entrambe le opere, sebbene figurative, sono accomunate dall’utilizzo dei colori nero e oro, che conferiscono alle sculture un’aurea di irrealtà e tensione verso una dimensione superiore, spirituale e preludono dunque alla produzione astratta degli anni successivi.
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L’utilizzo di una gamma cromatica anti-naturalistica e, soprattutto, l’irrequietezza della materia che riscontriamo, ad esempio, nella Signorina seduta, ritornano nei manufatti esposti al Museo del Novecento. Sia nei bozzetti scultorei che nei disegni in mostra emerge, infatti, un’irrefrenabile energia, che si traduce nella vibrazione che muove continuamente i contorni e le superfici delle figure, siano esse umane o animali. Tale espediente non serve solo a conferire maggiore potenza espressiva ai soggetti delle opere, a diffondere la loro carica verso l’ambiente circostante, ma è anche un chiaro segno del ruolo svolto dall’artista, la firma tangibile del suo gesto creatore. Per questo motivo, Fontana predilige materiali più facilmente modellabili, come il gesso o la terracotta; si tratta di un concetto che incontrerà il suo massimo grado di stilizzazione e astrazione nei Concetti spaziali, nei quali l’intervento dell’artista si concentra in un unico, netto taglio che annulla la bidimensionalità della tela e, proprio come accade nelle sculture, proietta l’opera in una dimensione esteriore.
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Le ricerche svolte da Fontana intorno ai cavalli e cavalieri leonardeschi non furono mere esercitazioni fini a loro stesse, mosse dal desiderio – che, in ogni caso, accomuna i massimi protagonisti del Novecento – di comprendere e studiare l’arte del passato, ma esse contribuirono, fra le altre cose, alla realizzazione del progetto per la Quinta Porta del Duomo di Milano, al cui concorso l’artista fu invitato a partecipare per “chiara fama”, nel 1951. Un interessante esempio è il bozzetto in gesso patinato Cavallo e Cavaliere, presentato come particolare della formella L’Arcivescovo Antonio da Saluzzo promulga la Bolla, che omaggia in modo esplicito il piccolo bronzo con il medesimo soggetto attribuito a Leonardo, oggi conservato presso il Museo di Belle Arti di Budapest: Fontana ebbe sicuramente modo di vederlo e studiarlo alla mostra del 1939.
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Una piccola sezione del percorso espositivo al Novecento, dedicata agli apparati documentari, riguarda poi il testo Lucio Fontana. 20 disegni con una prefazione di Duilio Morosini, che vide la luce nel 1940, a Milano, per i tipi delle Edizioni di Corrente; fu proprio in quella occasione che il critico d’arte Emilio Villa, recensendo la nuova pubblicazione sulle pagine di “Roma fascista”, istituì per la prima volta il parallelismo fra Leonardo e l’artista italo-argentino. Riferendosi ad un disegno di Battaglia, Villa affermava che Fontana era, fra coloro che appartenevano alla nuova generazione, colui che, grazie alla brevità e all’apparente semplicità dei suoi gesti, meglio riusciva a rendere attuale la massima leonardesca secondo la quale “Ogni cosa in natura si fa per la sua linea più breve”: si tratta di un’altra importante suggestione raccolta e sviluppata nel percorso espositivo.
Un’ultima questione di grande interesse, infine, riguarda la già menzionata “Mostra di Leonardo” del 1939, omaggiata al Museo del Novecento non solo tramite le grandi riproduzioni fotografiche che è possibile ammirare lungo il percorso, ma anche mediante la parziale ripresa dello stesso tipo di allestimento adottato in quell’occasione, riscontrabile, ad esempio, nell’infilata di disegni accostati l’uno accanto all’altro lungo le pareti della sala, appesi ad essenziali sostegni di ferro. L’esposizione leonardesca meriterebbe un articolo a parte, tanto grande fu la sua portata: ci limiteremo a ricordare, innanzitutto, che essa fu il primo, grande evento dedicato a Leonardo, il punto di partenza della sua fortuna critica in epoca contemporanea. La mostra venne organizzata dal regime fascista secondo dichiarati intenti propagandistici, volti a celebrare la superiorità del genio italico sulle altre nazioni: per questo motivo, di Leonardo veniva esaltato soprattutto il talento in ambito tecnico e scientifico e la maggior parte del percorso era dedicato a spettacolari riproduzioni delle sue invenzioni più celebri, in particolare per ciò che riguardava gli apparati bellici. Questo aspetto, unito alle martellanti campagne pubblicitarie, resero l’esposizione accessibile ad un pubblico quanto mai vasto e per questo motivo la mostra Vinciana fu uno dei primi eventi culturali “di massa” della storia del nostro paese. Ciononostante, venne raccolta e catalogata in quell’occasione anche un’incredibile quantità di opere d’arte, dai dipinti, ai disegni, ai bozzetti, apportando un fondamentale contributo allo studio delle vicende critiche e collezionistiche, non sempre limpide, che riguardano la produzione leonardesca.
Come si è cercato di far emergere nel presente articolo, la mostra “Lucio Fontana. Omaggio a Leonardo”, nonostante le piccole dimensioni, fornisce numerosi spunti di riflessione: innanzitutto, visitandola, ci si può rendere conto di uno degli innumerevoli modi attraverso i quali, nel corso delle epoche, si sono costruite la fama e la fortuna che, nel nostro tempo più che mai, circondano Leonardo da Vinci. L’interesse è poi, naturalmente, ampliato dal fatto che l’artista toscano ci appare mediato dallo sguardo di un altro protagonista del panorama culturale mondiale, Lucio Fontana, a sua volta geniale e instancabile sperimentatore. Una piccola nota critica riguarda l’illuminazione, che rende a tratti difficoltosa l’osservazione dei manufatti, a causa del riverbero della luce sulle teche di vetro che proteggono le opere. Data la specificità dei temi esposti, la sensazione che emerge è che la mostra si rivolga soprattutto agli addetti ai lavori: appare quindi necessaria una conoscenza di base del contesto nel quale si sviluppano le vicende trattate. In ogni caso, l’inserimento del percorso all’interno del Museo del Novecento, con la sua ricca collezione di opere di Fontana, rende agevole la fruizione anche a quanti, anche accostandosi a questo artista per la prima volta, desiderino conoscerne la lunga biografia artistica.
Chiara Franchi
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